L’anno zero dell’avanguardia globale
Assente Ferran Adrià,
finalmente i riflettori
si spostano su altri testimonial
destinati a sollevare il pil di una gastronomia in affanno
Difficile negarlo: questa terza edizione di Gastronomika a San Sebastian, nella versione new style dei cuochi baschi sulla plancia di comando, ha avuto una portata storica. E le ragioni sono diverse. L’anno zero dell’era post Adrià, tanto per cominciare, con il grande condottiero che non si è fatto vedere, né è stato evocato più di tanto sul palco. Ad eccezione dell’amarcord del pasticciere Christian Escribà, candidato alla successione nelle standing ovation, quasi una staffetta fra catalani, e della supplenza del socio di una vita Juli Soler, insignito del gueridon d’oro, premio del congresso al lavoro di sala. Finalmente fuori dal cono d’ombra del genio indiscusso, senza più grandi timonieri a tracciare rotte e rompere ghiacci, l’occasione è stata ghiotta per prendere la temperatura di questa febbre spagnola. E il verdetto sullo stato di salute della ristorazione, a dispetto della crisi economica, è stato più che confortante. I congressi del resto servono a questo: a sollevare il pil di una gastronomia in affanno attraverso la produzione di talenti e idee (e in questo senso Gastronomika funziona alla grande).
Ma questa edizione segna un anno zero anche per altri motivi.
Il trionfo della globalizzazione in cucina
La fine dell’eurocentrismo dell’alta cucina, per dirne il principale. L’avvicendarsi sul palco dei rappresentanti delle nazioni ospiti, Brasile, Messico e Perù, non ha coinciso con il consueto calo della curva di interesse, ma ha alzato il sipario su una ristorazione sorprendentemente matura e ipervitaminica, i cui spunti vanno ben al di là della prodigiosa generosità della natura nel fornire materie prime surreali, che sembrano uscite dal libro dei sogni. Gli aggrovigliati intrecci delle tradizioni millenarie, il melting pot etnico, le diverse velocità di economie in rapido sviluppo sono apparse anzi come il trampolino creativo per cucine d’autore dalla profondità inusitata, le cui opzioni estetiche fatalmente acquisiscono connotazioni politiche, ecologiche e sociali. Una nuova responsabilità, insomma, distante anni luce dalle fiere delle vanità massmediatiche e dalle marchette dei nostri celebrities chef.
Quelli che fino a qualche tempo fa erano buoni selvaggi cui sottrarre tesori con qualche collanina, fonte di ispirazione per primitivisti alla Gauguin in cerca di esotismi contro l’astinenza creativa, sono apparsi pienamente padroni della situazione. A dimostrazione del fatto che la cucina è un bisogno delle classi dominanti soddisfatto dalle classi subalterne. Ed è vero persino sul piano internazionale. La globalizzazione insomma è stato il secondo piatto forte del congresso, dopo il rompete le righe post Adrià.
Come evidenziato forse inconsapevolmente dal mappamondo dei Roca, miscellanea di appetizer in arrivo da qualsiasi latitudine servito dentro un pianeta cartaceo. Ed è interessante notare come entrambi i filoni abbiano evidenziato uno scavalcamento in atto. La nouvelle vague non si ferma, e se già alle spalle degli allievi di Adrià si profila una nuova, eccitante generazione creativa, oltreoceano non brillano più solo i big Alex Atala (foto in alto) e Gaston Acurio, talvolta un po’ appannati da business ingombranti. Oggi più che mai occorre essere folli e affamati. Sognatori, arrabbiati e intransigenti. Giovani e belli. Prepariamoci a una rivoluzione paragonabile a quella del realismo magico, che travolse la letteratura qualche decennio orsono. Non stupisce più di tanto, allora, che quest’anno l’Italia al Kursaal non abbia proprio messo piede, ed è stata la prima volta in assoluto. E soprattutto fioche sono apparse le petizioni di principio che tengono banco da noi. Una cucina avvitata nelle spire della memoria e nel culto del prodotto, ideologicamente vincolata alla metratura delle filiere e al bon ton dell’equilibrio gustativo. Nonostante le pressione di una giovinezza ribelle che da queste parti purtroppo non è stata ancora avvistata.
Nuovi ingredienti tra stregoneria e folklore
L’onore di aprire le danze è toccato al Brasile, che ha spedito sul palco l’avanguardia di una nutrita compagine rosa. Helena Rizzo del ristorante Manì di San Paolo si è confrontata con i sentieri che si biforcano davanti a un popolo bianco, nero e meticcio, composto di conquistati e di conquistatori, selvaggio e occidentalizzato, che nell’incertezza, anche in cucina, si affida all’istinto e alla magia. Ad esempio recuperando l’araruta, radice di origine orientale ambientata in Brasile da 7000 anni e utilizzata dagli indios contro le punture dei cobra, oggi sfruttata dalla medicina per la produzione di sangue artificiale e convertita al Manì in addensante per una cascata di gnocchi. Il primo di una sfilza di ingredienti incredibili, al confine della stregoneria e del folklore – altrettante sirene per quanti cercano di evadere dal cul-de-sac dell’avanguardia, meglio se con una sensuale mossa di samba.E la cucina ha continuato a caricarsi di colori addentrandosi nelle selve amazzoniche e sugli altopiani andini, in un ricominciamento che fa pensare a una infanzia ritrovata. Rivergination, la chiamerebbe Luciana Littizzetto, perché tutto suona nuovo e promettente, lasciando presagire un avvenire costellato di sorprese. Il Messico, per esempio, già cantato da Calvino in Sotto il sole giaguaro per i suoi cibi barocchi e afrodisiaci, non ha sfigurato al cospetto dei cugini carioca. Senza archiviare lo street food e persino gli insetti, croccante snack mai passato di moda; il cioccolato azteco con la sua magica schiuma e le tortillas rivedute e corrette, in una generale atmosfera no-global. Anche qui l’aritmia è ricchezza, come hanno dimostrato Bruno Oteiza e Mikel Alonso (quest’ultimo nella foto in alto) del ristorante Biko di Città del Messico con la loro fusion fra tecniche spagnole e giacimenti gastronomici locali. La radice di chilcuague, usata dagli indigeni come anestetico e recuperata dal duo per la sua capacità di stimolare la salivazione, acuire la percezione dei sapori e rilasciare endorfine per mezzo di una sorta di scossa elettrica; oppure l’huitlacoche, il fungo del mais ribattezzato “caviale messicano”. Una miniera di umami che gli agricoltori di tutto il mondo tentano di estirpare alla stregua di un pericoloso infestante. Ingredienti rielaborati strizzando l’occhio alla contemporaneità, come nel caso del pesce nappato e infornato per simulare la carbonizzazione di andoniana memoria.
Mentre sul fronte peruviano Pedro Miguel Schiaffino (foto a lato) ha tessuto le sue delicate armonie neoandine e Mitsuharu Tsumura ha rinverdito i fasti della cucina nikkei, fondata nel XIX secolo dagli immigrati giapponesi piegando l’esuberanza latina alla rigorosa grammatica nativa. La fame non è poi così lontana, ma le viscere chiamano più che altro identità. Scosse e brividi per una gastronomia che altrove inclina alla sonnolenza post prandium.La Spagna ha risposto sguinzagliando i suoi big, da Carme Ruscalleda (qui sopra) con il figlio Raul, alle prese con i film di Almodovar, a Quique Dacosta (foto qui a lato e in basso), impegnato in una svolta essenzialista per la sua ultima “collezione”; da Eneko Atxa (sopra a destra), con i suoi paesaggi di mare serviti selle cartoline, a Josean Alija (sopra a sinistra), che ha presentato il suo nuovo ristorante Nerua, sempre all’interno del museo Guggenheim. Mentre fra i padroni di casa Andoni Luis Aduriz (foto a lato) ha offerto un saggio stimolante sul metodo che presiede alla sua creatività. Sorta di tecnica delle tecniche che mette nel mirino un singolo ingrediente, in questo caso il kuzu, per sviscerarne ogni virtualità. Ed è così che l’addensante giapponese attraverso il gioco delle temperatura può convertire un denso sugo di maiale iberico in salsa croccante, sorta di chips che si scioglie a contatto con la saliva. Oppure fornire fogli trasparenti, finti formaggi dalla cremosità record, “pane” lievitato o croste croccanti, dalla consistenza incerta fra piacevolezza e fastidio. La pietra filosofale di una cucina di prodotto altra, dove l’ingrediente diventa il mezzo per un lavoro su di sé dagli echi vagamente zen.
Torte 3d e pasticceria da smartphone
Di tutt’altro tenore l’intervento di Christian Escribà (foto in basso), pasticciere barcellonese nonché recordman degli applausi. In compagnia della compagna e collega Patricia Schmidt, si è soffermato sulle componenti interattive nella messa a punto delle torte, confezionate sartorialmente sulla personalità del festeggiato, per poi illustrare due creazioni per il Bulli: una a chiusura del ristorante (un enorme cane commestibile); l’altra per celebrare la metamorfosi in fondazione (una torta volante appesa a palloncini di elio, contenente i sogni vergati da tutta la brigata). Per poi stupire con un filmato in 3D elaborato appositamente per il congresso. Il pubblico munito di occhialini ha potuto così partecipare al rinfresco organizzato per una festa di nozze. Sulle pareti della sala e sulla torta stessa sono stati proiettati filmati volti a spettacolarizzare la preparazione in laboratorio e a saldarla magicamente al prodotto finito, secondo il concetto della “pasticceria aumentata”, ispirato alle applicazioni degli smartphone. Un richiamo irresistibile al nostro complesso di Peter Pan.
Ma è stata soprattutto l’ultima generazione iberica a farsi notare in una ponencia a sette voci, intonata da Ricard Camarena, Rodrigo de la Calle, Angel Leon, Paco Morales, Marcos Moran, Francis Paniego e Ruben Trincado. Figli compiutamente emancipati dai padri, interpreti di una cucina antibarocca, minimalista, iper-riflessiva, focalizzata sulla ricerca gustativa avanzata, propensa alla crudità piuttosto che all’accanimento tecnologico, coerente insomma con le tendenze dominanti un po’ ovunque, dalla Scandinavia ai talenti nostrani.
La gastrobotanica
In particolare è risaltato il complesso lavoro compiuto da Rodrigo de la Calle del ristorante De La Calle di Aranjuez sulla famiglia sterminata degli agrumi, che a suo giudizio in corso di maturazione mutano corredo aromatico. In collaborazione con il biologo Santiago Orts, quale pioniere della “gastrobotanica” ha messo nel mirino gli aromi delicatissimi che precedono il compiuto svolgimento degli oli essenziali. Il punto di partenza per sensibili geometrie gustative intessute fra funghi, ostriche e caviale citrico; datteri, melone, lenticchie e una grattata di scorza. Mentre Angel Leon del ristorante Aponiente di El Puerto de Santa Maria sta portando avanti la sua esplorazione dell’universo marino attraverso una componente finora trascurata, ma gustativamente impattante: il plancton, di cui ha catalogato 60 specie, su 4 delle quali sta già lavorando. Contro lo stereotipo del mare gustogenico e d’élite, un tuffo più reale del vero fra gli anelli della catena alimentare, carico delle sensazioni potenti dei fondali. E una spinta un po’ più in là al confine del commestibile, data dal versante atlantico piuttosto che sulla sponda mediterranea.
E veniamo ai big internazionali, protagonisti del gran finale. Magnus Nilsson dello svedese Faviken, minuscolo ristorante sperduto fra i boschi, dedito all’elaborazione di prodotti procacciati in proprio, si è dedicato all’ “alta cucina di sopravvivenza” e da bravo cacciatore, avvezzo alle soluzioni estemporanee, ha portato con sé un volatile e una pila di mattoni su cui appoggiare la graticola. Scivolando nella preistoria senza troppa fantasia. Si è trattato di un gallo cedrone, scelto per la sua capacità di farsi spugna degli aromi circostanti e arrostito, guarda un po’, differenziando i tempi secondo i lati, visto che Magnus si è premurato di spiegarci che il petto cuoce prima della coscia. Per contorno il cibo del gallo cedrone stesso (altro tocco da fantasista), in questo caso frutti di bosco e licheni, che sono forse un po’ amari, vanno conosciuti, ma per gli svedesi nei tempi magri hanno sempre rappresentato un serbatoio emergenziale. Accanto alla carne sul piatto, per finire, il suo pasto estratto dal gozzo (!), al fine di sentire il profumo della foresta. Insomma una cucina iperbruta, sorta di reazione pavloviana a decenni di tecnicismi e concettualismi, che però non lascia presagire grandi potenzialità di sviluppo.
Il contrasto non poteva essere più netto con le architetture volubili e la delicata sensibilità impressionista di Alexandre Gauthier della Grenouillère, interprete di una riscoperta cucina del territorio con qualche scivolata andoniana di troppo, e le atmosfere esotiche di Ignatius Chan, che ci ha trasportato a Singapore.
sapore di marketing
Mentre Heston Blumenthal, fresco di divorzio ma a corto di idee, ha fatto ancora una volta ricorso alla metafora del negozio di dolciumi per illustrare il suo concetto di gola, confezionando una regina di cuori commestibile. Il cuore del suo intervento però è stato un altro. Considerati i mesi che trascorrono fra una prenotazione e un pasto al Fat Duck, al fine di alimentare le aspettative la sua équipe ha messo a punto un sito riservato ai riservati, che possono accedervi al massimo tre volte. Vi troveranno un sofisticato cartoon con anticipazioni del menu, dal suono del mare alle suddette caramelle. Più che il momento culminante del congresso, il capolavoro di un marketing che ha esondato un po’ ovunque, rubando spazio alla cucina vera. Grant Achatz del ristorante Alinea di Chicago, per finire, ha seminato qualche dubbio sulla sua originalità. La prima proposta, tesa a risvegliare in chi mangia il sentimento estivo dei tuffi in piscina e dell’erba tagliata, è consistita nell’allestimento di un centrotavola composto di terra e piante aromatiche, spruzzate di una soluzione di acqua, sale e pepe per simulare la rugiada, dalle quali servirsi tramite forbicine per completare i piatti. Idea che in realtà porta il copyright di Ferran Adrià. Più convincenti, ma messe un po’ in ombra dall’incipit infelice, la altre idee. Per esempio quella del piatto scomposto in bocconi e posate sparpagliate sul tavolo, precedentemente disinfettato con un tè speciale. Un modo per coinvolgere l’ospite nella composizione e stimolare l’interazione a tavola attraverso lo scambio di posate, ma soprattutto una presentazione impattante nell’evocazione di un caos ordinato. Totale la cura dei più infimi dettagli, per esempio le posate alla fine andranno raccolte in un contenitore il cui fondo è rivestito di sale e lavanda scaldati, per evitare rumori e propagare profumi. Impressionante anche il dessert finale. Una palla di cioccolato ripiena di dessert che viene lasciata cadere a centrotavola, sopra una tavoletta in silicone precedentemente schizzata di salse in sala dallo chef pasticciere. Uno choc che allude con strepito visivo e olfattivo alla rottura estetica in corso.