Cucina nomade di molte suggestioni
Non si può arrivare da El Coq senza un bastimento carico di aspettative. Perché se è vero quel che dice Anton Ego in Ratatouille, ovvero che il fine del critico è sostenere coraggiosamente il nuovo, il suo alter ego Rafael Garcia Santos non è stato parco di elogi quando, lasciando il ristorante, ha esultato: “Campeones!”. Ed è stato solo il primo dei tanti che a partire dal 6 maggio, quando sono stati oliati gomiti e battenti, si sono recati in pellegrinaggio a Marano Vicentino, nel tentativo di esorcizzare la recessione creativa che sembra affliggere la cucina italiana. Passato lo zenit di vari mostri sacri, fra leoncini che ancora stentano a ruggire, il talento dello chef patron Lorenzo Cogo appare inversamente proporzionale alla sua giovane età. Venticinque anni che proiettano un’ombra lunghissima sul futuro della cucina italiana.
Nel locale, ospitato in una palazzina del paese, spira un’atmosfera informale. Ci si siede su sedie anni ‘60 verniciate di bianco, attorno a tavoli in larice naturale, circondati da lampade in stile danese. E tutt’intorno è total white (a parte fotografie ed opere d’arte in esposizione). Glaciale, nordico, abbagliante, per concentrare l’attenzione sui piatti. Il servizio è capitanato dai cuochi, in puro stile Noma, per favorire lo scambio di informazioni fra ospiti e cucina. E il fervore della brigata giovanissima brucia. C’è voglia di fare e di brigare, tutta l’energia dei vent’anni per una scarica di adrenalina nel corpaccione della ristorazione che langue, fra le pieghe da decubito di una stasi prolungata.
Muoversi attraverso il menu significa tirare le fila dello stato dell’arte internazionale. Una sintesi ardita e ancora in fieri, che lascia presagire mirabilia a venire. Nonostante l’età, quella di Cogo è la cucina straordinariamente colta di un cuoco”laureato”, che ha solcato mari e monti prima di cominciare a mettere a punto il suo stile, impresa che a suo dire richiederà un lustro di sperimentazioni. Figlio d’arte, giacché il padre porta avanti una trattoria a pochi chilometri dal ristorante, e il nonno era un maggiordomo che allacciava volentieri il grembiule, dopo l’alberghiero a Recoaro ha voluto formarsi a fianco dei grandi. Innanzitutto un giro fra stellati italiani (il ristorante di Aldo Coppola come la Locanda di Piero), poi Shannon Bennet del Vue du Monde di Melbourne e Mark Best del Marque Restaurant di Sidney, dove ha familiarizzato con la fusion connaturata al melting pot australiano. A seguire Heston Blumenthal al Fat Duck, Seiji Yamamoto al Ryugin di Tokyo, l’incontro fondamentale con Victor Arguinzoniz, burbero genio basco della brace, e la ciliegina di uno stage presso René Redzepi al Noma di Copenaghen. Influenze che si percepiscono nitidamente nel menu, seppur graziate da interpretazioni di rango, nell’attesa che l’atmosfera riduttiva di un contenitore proprio amalgami il bouquet, smussando qualche punta qua e là. A dispetto del nome, volutamente in bilico fra l’idioma francese e quello spagnolo (ma El Coq è anche una storpiatura del cognome del cuoco, nonché l’etimo indoeuropeo di cucina e cuccagna), l’etichetta di fusion frettolosamente appiccicata alle alchimie di questo enfant prodige manca il bersaglio di un’opzione più ardita. Sono gli stessi paradigmi fra cui attuare le contaminazioni a sciogliersi al calore dei fornelli, inaugurando un gioco a schema libero e ad enne dimensioni, vertiginoso nella sua mancanza di appigli. Il fuoco di fila degli appetizer spara chips multi gusto, alle trippette di baccalà, al pecorino o nature di patata, mettendo in mostra la passione per il design dello chef. Ma la ricerca gustativa ingrana subito la quarta.
Dopo impegnativi amuse bouche (il fagottino di lardo di Paolo Parisi con ricotta e noci, porcini, finferli e abete, che strizza l’occhio all’avanguardia nordica nelle persistenti note resinose, appoggiate alle suggestioni autunnali di un paesaggio cieco; oppure il gioco gustativo dell’acquario con granita di dashi, cozza, kumquat, asparago di mare e soprattutto fumo, sposato al packaging ironico di un barattolino ikea), la freddezza glaciale di una salvietta alla menta da passare sulle mani e sul volto fornisce la variante 2.0 del sorbetto di classica memoria. Reset olfattivo, tattile e termico che instaura il rito di passaggio dentro un ordine di equazioni gastronomiche a parte. È il primo annuncio di un registro ludico che Cogo padroneggia alla perfezione, quale degno erede di intemperanze e stramberie dell’avanguardia italiana, passato oltretutto per le ali del Fat Duck. Ma anche il sintomo di una ricerca multisensoriale analitica e mirata, capace di separare gli elementi dalle loro cause per vorticare nel gioco. I motivi conduttori sono pronti a intrecciarsi in un balletto serrato: l’affumicato, la capra, l’ironia, l’amaro, con la brace a capitalizzare quasi tutte le cotture.
Gli antipasti stuzzicano l’appetito di novità con registri diversi. Il burro di capra con grani di sale nero è un capolavoro di concentrazione (se ne ricavano appena 4 etti da 25 litri di liquido) passato anch’esso per l’abbraccio del fumo (4 euro); ma soprattutto stupisce l’insalata, composta da 4 o 5 foglie di varietà stagionali essiccate per tutta la notte con pochissima brace, lamelle di pomodorino, gelatina di aceto a brandelli e gocce di maionese resinata (9 euro). È l’ultimo degli ossimori applicati al meno cucinabile dei piatti, dopo la liquefazione di Berton e il sottovuoto di Cracco, con un esito gustativo centrato sulle diverse tonalità dell’amaro, le testure e i cromatismi esaltati (ed esaltanti) di un novello Lopriore. A farle concorrenza c’è il capolavoro boreale della barbabietola in diversi stati con yogurt, Martini e nocciole (11 euro), omaggio a René Redzepi, nel quale ancora una volta tornano i fumi delle braci, ma anche la semplicità e il naturalismo del maestro danese.
Lo shabu shabu di manzo wagyu con germogli alfa alfa e tartufo, in chiave strettamente fusion, getta la luce sulle materie prime eccelse della casa (13 euro); mentre Vicenza, richiamo alla toponomastica composto da una pipetta di fonduta di Asiago e un cubetto di polenta fritta con polvere e gelatina di porcini, terremota il gusto classico con le scosse dell’ironia ergonomica (9 euro).
I primi si muovono su terreni apparentemente più rassicuranti. Gli gnocchi di peperoni alla brace addensati al kuzu con rancetto e fichi (14 euro) come i tortelli di Taleggio, radicchio e pepe verde (14 euro), dove l’insalata centrifugata risalta per la nitida nota ancora una volta amara. E la brace vince facile nel comparto dei secondi, dove l’insegnamento di Etxebarri garantisce succulenza e grinta alla costata di manzo galliega (6 euro l’etto), vecchia di 10 anni e ben frollata. Con l’alternativa di un capriolo in montagna (21 euro), che racconta le escursioni alpine dello chef fra macchie aromatiche e frutti di bosco. Show food, spettacolo puro, cinema avvincente. Tanto che i dessert sono introdotti da una Cogo cola con pop corn, che istiga a lasciarsi andare al drive in delle emozioni. E rasentano il capolavoro nella cagliata di capra con gelato di fagioli neri (8 euro), geometria gustativa purissima nascosta sotto un manto regressivo di zucchero filato da pizzicare con le dita. Il menu degustazione, composto di 6 portate, costa appena 65 euro: una politica dei prezzi che fa sorridere il portafogli senza umiliare il frigorifero. E la carta dei vini, ancora un po’ succinta, accanto ai must del territorio veneto propone una buona offerta di vini naturali e triple A (anche francesi), nonché una selezione di birre artigianali targate Bruton.