Tutti ne parlano, pochi la fanno.
Da quando nel gergo dei foodies ha fatto capolino, la “bistronomia” – tendenza battezzata con felice mot valise da Pau Arenos (già teorico del tecno emozionale), l’utopia della riconciliazione fra qualità e portafogli, ricerca cucinaria e crisi economica – non ha lasciato troppo spesso il libro dei sogni, almeno per quanto riguarda l’Italia. I nomi dei portabandiera inanellano cacofonici fonemi stranieri e i papabili nostrani si scrollano di dosso un’etichetta ammantata di esterofilia, oppure di moda. Meglio evocare il comfort food delle neotrattorie, sapori della memoria fissati come esche ad un amo che la tecnica e la professionalità scagliano lontano, falciando zero sulle ricevute del conto. Probabilmente siamo (ancora e sempre) un popolo di trattori, come lamentò Gualtiero Marchesi prima di imboccare l’aulica strada del fast food. Al target della bistronomia fanno difetto la curiosità e la cultura, merce metropolitana o meglio ancora cosmopolita.
La trattonomia suona troppo male lontano da Parigi: secoli di ristorazione blasonata non si improvvisano in 40 anni al fast moving.
Milano però almeno un po’ cosmopolita lo è, oltre che gourmand e gourmet grazie ai suoi tanti talenti; ed è varcando la soglia del Pont de Ferr, storica osteria con cucina circondata dalle rifrazioni bohemien dei Navigli, quasi una rive gauche con qualche sforzo d’immaginazione, che l’innesto sperimentale di Arenos sembra avere finalmente attecchito.
Il locale, immutato dalle gestioni precedenti, rimbomba della vita che ferve ai tavoli, rigorosamente privi di tovaglia ben prima che ci pensasse Redzepi.
A pranzo sono impiegati in pausa, a cena alacri lavoratori della gola: l’arredo spoglio e l’atmosfera decontractée appartengono a un “bistrot” che sposa la gastronomia, e così scopre le sue stesse leggi (se così è interpretabile il neologismo).
Il merito va alla titolare Maida Mercuri e al suo cavallo di razza Matias Perdomo, cuoco di natali uruguaiani ma cresciuto professionalmente in Italia. Appena ventunenne, dieci anni fa ha lasciato il suo paese alla volta di Milano, quando era già chef di un ristorante italiano, su sollecitazione di un connazionale e collega. Ed ha ricominciato da cassoeula e rustin negàa, finché 5 anni fa lo chef del Pont de Ferr non gli ha passato il testimone e la signora Maida non gli ha dato carta bianca. “Alla fine sono quasi completamente autodidatta, ed è bene così, altrimenti avrei potuto rovinarmi. Ho fatto solo un paio di corsi all’inizio con zio Jorge, che mi ha incastrato. Aveva un’impresa chiamata Didactil, che produceva giocattoli in legno per bambini, e io lavoravo con lui come aiuto falegname. Ma era convinto che dovessi fare il cuoco, così si iscrisse con me a lezione di cucina. E lasciò subito. In seguito ho fatto qualche stage, per esempio dai Roca. Un ristorante entusiasmante: tutto il rigore di un tre stelle, con una grande ricerca e una piena soddisfazione al palato, ma senza una disciplina eccessiva. E poi ho letto tantissimi libri, fino a due anni fa. Quando ho sentito l’esigenza di chiudermi un po’ per non lasciarmi influenzare. Qui al Pont de Ferr il salto di cucina non è stato indolore. I primi tempi succedeva spesso che qualcuno si alzasse dai tavoli chiedendo la cotoletta ortodossa che aveva sempre avuto.
Ma col tempo l’apertura è cresciuta sempre più da parte della clientela. Ma anche da parte della critica: abbiamo appena ottenuto la nostra prima stella Michelin!”.
Il risultato è una cucina istintiva, ludica, divertente. Nel senso di quanto de-verte, ovvero volge altrove l’attenzione rispetto al trantran dello spaghetto quotidiano. “Piatti elettrici, adrenalinici”, li definisce Matias, ma privi di eccessi concettuali. L’avanguardia è in crisi – chiediamo – se persino Adrià si è convertito alle tapas? “Non direi, è stato seminato così tanto che credo sia arrivato il momento di capitalizzare”. Le conquiste dei maestri vanno metabolizzate per diventare cellule e organi pulsanti della ristorazione a venire.
Il menu del giorno mette sul piatto rassicuranti portate stagionali (Matias fa la spesa due volte alla settimana al mercato del pesce e delle verdure): pasta fresca e secca a 6 o 7 euro, pietanze di pesce e di carne a 14, più un paio di contorni a 5, con l’alternativa degli affettati (15 euro) e di un fornitissimo carrello dei formaggi (da 5 a 35 euro), tutti scortati dal cestino dei pani della casa, che spaziano dai grissini ai minicroissant.
Ma i più avventurosi attaccheranno con decisione l’ampia sezione creativa, antologizzata nei due menu degustazione (5 portate a 50 euro, oppure 8 a 70).
Il sashimi di filetto di bue e foie gras con salsa bernese e prugne umeboshi è un Rossini a ritroso, tutto giocato sulle testure fondenti, che trova il suo equilibrio e una chiave di volta fusion nel tocco sapido e acidulo del frutto giapponese in purea, distribuito in goccioline minute che pure riescono a “cuocere” la carne (16 euro). La cipolla rossa di Tropea con il formaggio di capra fresco omaggia i Roca con un finto tubero di zucchero soffiato, ripieno di cipolla e mousse di caprino, a suo agio in un habitat di finta terra composta di pane speziato tostato (17 euro, foto qui sotto). E l’interessante mosaico di ricciola cruda, foie gras, noci di macadamia, quadretti di pompelmo e arance assembla gusti e colori come un cubo di Rubik, le cui combinazioni aleatorie nella sequenza delle forchettate compongono armonie aperte e ardite.
I primi piatti sono altrettanto pirotecnici, dalle linguine di pasta servite tiepide su ghiaccio affumicato con mela verde, pesto di pistacchi e basilico e quenelle di caviale (18 euro) agli gnocchi morbidi di patate alla brace con zucchine grigliate e gamberoni spadellati (16 euro), dove riaffiora l’amore per le braci (eseguite su un mini-barbecue), che legano con le loro volute l’intero continente sudamericano. I secondi non intaccano l’integrità dell’ingrediente ma lo rinnovano attraverso abbinamenti inconsueti e presentazioni osé. È il caso della pluma (cioè il filetto) di maiale iberico, cotta al sangue nel forno, la cui succulenza sposa generosi schizzi di crema di burrata e arabeschi di salsa ai ricci di mare, che intersecano la pioggia di un classico fondo di carne (27 euro). Un pastiche nel senso alto del termine. O delle polpette di salsiccia di Bra ripiene di ostriche con cipolline in agrodolce su granella di pane al sesamo, esplicito omaggio a Enrico Crippa e alla sua delicata sensibilità combinatoria (26 euro). Più destrutturati i dessert, fra i quali risalta l’albero delle mandorle con rami di cioccolato, la cui composizione varia di stagione in stagione.
L’autunno ad esempio lo riveste di una chioma di zucchero filato che la pioggia dello spruzzatore di profumo va dinamicamente a sciogliere (10 euro, foto in alto). Oggi che la ristorazione sta tentando la spallata carioca (il Brasile impazza nei congressi del vecchio continente e i seguaci di Bolivar cominciano a piantare le loro tende in Europa), è latino anche il secondo, l’argentino Simon Pres, già sous chef di Pietro Leemann.
Guidano una brigata composta di 10 elementi, 6 per servizio, visto che il Pont de Ferr è aperto tutti i giorni della settimana, tanto a pranzo che a cena. La cantina invece è cosa di Maida, che propone una rosa folta di vini al bicchiere, ma anche mezze bottiglie, cresciute attorno alla passione Champagne.