Tutto il mondo ama il cibo italiano e ne abbiamo testimonianze ogni giorno, sui giornali, pubblicità, web e format televisivi, anche con personaggi illustri come testimonial.
Addirittura con il termine dieta mediterranea si definisce la cucina italiana nella sua interezza, con tanto di emulazione ormai anche all’estero in quanto il Made in Italy è diventato un must di fama mondiale. I cibi italiani sono un punto di forza e ogni media ne riconosce la leadership anche per via della correlazione con la nostra longevità e un nostro sostanziale buono stato di salute. Insomma, la cucina italiana è un vero e proprio brand. Non è un caso che un turista su quattro viene in Italia perché ama il nostro cibo (29,9% dei turisti stranieri e 22,3% dei turisti italiani, dati ENIT).
Ma dal punto di vista finanziario il cibo assume lo stesso appeal?
A dispetto dell’interesse sempre maggiore che riscuote nel mondo, il mercato del food italiano rischia di rimanere quello che è sempre stato: piccolo, poco internazionalizzato, sfruttato nell’immagine da operatori stranieri che costruiscono imperi della produzione e della ristorazione con un’offerta che di italiano ha solo il nome.
È da qua che bisogna dunque partire per capire quali novità degli ultimi anni riguardino più sostanziosamente il settore agroalimentare, come l’ingresso sempre più massiccio di fondi di investimento e le numerose acquisizioni di imprese italiane da parte di operatori industriali di dimensioni medio-grandi, europee ma anche statunitensi, cinesi e coreane.
Il comparto agroalimentare è ancora costituito da piccole e medie imprese e il tessuto manageriale è tuttora legato a meccanismi gestionali non più attuali. Ecco che il ruolo della finanza è di cruciale importanza per esportare e crescere. Un esempio agli occhi di tutti è l’acquisizione del 20% della catena Eataly (fondata da Oscar Farinetti) da parte di “Clubitaly S.r.l.”, un fondo guidato da Tamburi Investment Partners. Lo scopo è farla crescere ancora all’estero e portarla verso una quotazione in Borsa. Ma c’è anche l’investimento nel capitale di Inalca (l’azienda del gruppo Cremonini carni) da parte di IQ Made in Italy Investment Company, una joint venture tra il Fondo Strategico Italiano (di Cassa depositi e prestiti) e Qatar Holding, il fondo che ha comprato anche i palazzi di Porta Nuova a Milano.
Lo scopo degli interventi dei fondi di investimento è quasi sempre quello di supportare l’espansione all’estero. Quello dell’agroalimentare è un settore cruciale per l’economia, il secondo in termini di mercato.
Il problema della dimensione limitata delle imprese italiane del food è un leitmotiv che ritorna in tutte le analisi, già affrontato su questo giornale dall’esperto Lorenzo Ferrari. Le PMI che costituiscono la realtà economica più consistente del sistema Italia non attraggono né gli operatori finanziari né quelli della Borsa.
Le poche realtà che sono riuscite a fare dei percorsi di sviluppo, con direzioni evolutive, hanno avuto un riscontro positivo. Una di queste è Eataly, un’altra è Nuova Castelli, acquisita da un private equity internazionale.
Ma i tempi degli investitori finanziari sono compatibili con quello dell’agroalimentare? No, per la maggior parte degli operatori del settore, a partire dalla famiglia Barilla, a lungo corteggiata dalle società finanziarie, non è così. Troppo bassi i livelli di crescita e troppo lunghi i tempi richiesti per rientrare negli investimenti. Il settore agroalimentare non è compatibile con i tempi dei fondi di investimento intesi all’anglosassone, che hanno rendimenti attesi a due cifre, se non fino al 30%.
Le tempistiche della finanza, dettate dalle trimestrali, e la pressione verso risultati scoppiettanti impossibili da raggiungere, sono stati anche i motivi che hanno frenato le Ipo (offerte pubbliche iniziali, ndr) in Borsa negli ultimi anni, da Grandi Salumifici Italiani al caffè Segafredo Zanetti. Proprio il fallimento di queste operazioni può aver spinto le aziende ad aprirsi ai fondi di investimento. Negli ultimi anni sul fronte della Borsa si è visto poco, l’alimentare è uno dei settori meno rappresentati nel mercato finanziario italiano. È un gap che si potrebbe colmare e in questo senso molti dipenderà da come andranno le prossimi Ipo in altri settori, a partire da quelllo di Ovs nell’abbigliamento.
L’ingresso dei fondi di operatori stranieri nelle aziende del food può avere logiche di integrazione, di completamento di una gamma produttiva, di sfruttamento del marchio, e sviluppo. Altre operazioni sono legate all’acquisto di quote di mercato in Italia, in una logica di concorrenza.
Il punto è conservare la piattaforma produttiva e le teste pensanti delle aziende italiane, continuando a elaborare strategie.
Ci sono stati casi in cui è andata così (come nel caso di Inalca-Cremonini, ndr). In altri casi le aziende straniere possono prendere il marchio e produrre altrove.
Per evitare questa prospettiva, una tutela indispensabile è quella che viene dall’indicazione sulle etichette dell’origine degli alimenti e dello stabilimento di produzione. Se sul primo punto l’Unione europea, con l’ultimo regolamento sul tema, ha fatto passi avanti notevoli, sul fronte dell’indicazione dello stabilimento la retromarcia è stata clamorosa.
In conclusione avere un consulente che ti possa affiancare anche a livello imprenditoriale in tutto il percorso di crescita e sviluppo dell’azienda è cruciale tanto più se presente in una struttura in grado di supportare anche le grande operazioni.
[Questo articolo è tratto dal numero di gennaio-febbraio 2024 de La Madia Travelfood. Puoi acquistare una copia digitale nello sfoglia online oppure sottoscrivere un abbonamento per ricevere ogni due mesi la rivista cartacea]