Di solito si colloca storicamente la nascita della figura del cuoco come libero professionista nella Francia post-rivoluzionaria della fine del Settecento, dove gli chef alle dipendenze delle famiglie nobiliari si trovarono all’improvviso senza padrone e liberi di mettere la propria abilità “sul mercato”.
Prima di allora, secondo la vulgata, i cucinieri o erano “osti della malora”, cioè rudi gestori di osterie e locande, oppure facevano parte della servitù di palazzo, anche se talvolta con qualche gallone in più sulla livrea. Si dubitava che nel Medio Evo, per esempio, il lavoro dei cuochi potesse essere assimilato ad una libera professione, non dico alla stregua di medici e notai, ma forse neppure al livello di molti valenti artigiani.
Si pensava che, nell’opinione corrente dell’epoca, il fare cucina fosse un tipo di attività servile, umile, scarsamente considerata. Oggi questo quadro viene messo almeno parzialmente in discussione. Il nostro collega Mauro Pratesi, collaboratore della Madia e studioso di storia della cucina, ci segnala infatti una significativa scoperta. In breve: grazie al paziente lavoro di alcuni ricercatori, è emerso dagli archivi un libro contabile della metà del Trecento da cui si ricava che in quel periodo esisteva a Firenze un cuoco “libero professionista”, nel senso pieno e completo del termine.
Questo cuoco aveva bottega, cioè aveva un laboratorio. Il termine “bottega” veniva usato per intendere una semplice rivendita ma anche in un’accezione più elevata: si diceva, per esempio, che Giotto aveva appreso i rudimenti artistici nella “bottega” di Cimabue. Dunque per un cuoco tenere una bottega significava avere acquisito un buon livello di specializzazione nella propria arte. Cosa faceva questa bottega? Faceva cose modernissime: in pratica era al contempo una rosticceria e un catering. Cioè: 1) vendeva pietanze già cucinate o preparava piatti speciali su ordinazione, e – dietro richiesta – faceva anche consegne a domicilio; 2) era in grado di noleggiare tutto il necessario per imbandire un banchetto: piatti, bicchieri, taglieri e quant’altro. Volendo, poteva rifornire il cliente persino della legna necessaria per il fuoco.
Questo professionista così attuale, che per la cronaca si chiamava Guido, e per tutti era “Guido cuoco”, costituiva un’eccezione? I documenti disponibili non lo dicono, ma nulla vieta di supporre che anche altri soggetti svolgessero attività similari. In ultima analisi, non stupisce che questo genere di imprese fiorisse proprio nella Firenze trecentesca, il centro del mondo di allora, grande capitale economica e culturale, animata da un ceto mercantile estremamente dinamico e intelligente.
Casomai c’è da chiedersi perchè esperienze come quella di “Guido cuoco” escano solo ora da un oblio plurisecolare.
Ma cosa volete aspettarvi da un paese dove il libro di cucina più celebrato è stato scritto da un dilettante, e dove la gente conosce i cuochi solo grazie a qualche comparsata televisiva?
Di Elsa Mazzolini