Sono arrivati tardi i saldi di fine stagione, gli sconti fino al 70% sui soggiorni al mare, le offerte 3×2 e i pacchetti promozionali, sono arrivati quando i buoi erano già scappati e l’estate pure, deludente per molti albergatori, troppo cara per la maggior parte dei turisti.
Credo che il nostro settore, in tutto questo, non manchi di responsabilità. Dire che ogni cosa è aumentata non autorizza ad aumentare senza criterio. Penso di conoscere abbastanza i ristoratori per dire che sono pochissimi coloro che sanno veramente calcolare il food-cost, ossia quanto percentualmente incide su un piatto ogni voce, dalle materie prime alle tasse, dai costi di gestione al personale. Quest’ultima voce, per esempio, non ha subito grosse variazioni, contrariamente a quanto si lamenta: il personale generico, rispetto al 2001, costa circa il 15% in più e il costo dello chef è sempre stato soggetto a regole di libero mercato.
Le tanto incolpate materie prime, per esempio, non sono tutte lievitate come si favoleggia: non la carne, non l’olio, non la pasta, non molte verdure, sì il pesce, nì il vino, che si può trovare ottimo, a prezzi decenti e che comunque viene ricaricato di norma del 300%. Cioè troppo. Ad essere aumentate, e lo dico con la franchezza abituale, sono soprattutto le pretese di tutti. Come quella di voler dare al proprio lavoro un valore sempre più alto, in base all’equazione che vuole la qualità indissolubilmente rapportata al prezzo elevato.
Il problema è che però intanto la gente non ne può più e che anche molti addetti ai lavori sono spaventati. Le lettere e le telefonate di preoccupazione e protesta che arrivano alla nostra redazione non sono solo dei consumatori: sono molti i ristoratori che temono questa generale tendenza al rialzo, c’è addirittura chi ci ha detto che la categoria a cui appartengono “dovrebbe vergognarsi”. Gli aumenti più eclatanti si riscontrano soprattutto nella fascia di ristorazione medio bassa, per esempio nelle pizzerie, come tutti sanno, in testa alla classifica dei ricarichi assurdi: come giustificare il fatto che pizza e birra dalle 12/15.000 lire del 2001 siano passate a 15/18 euro? L’incidenza delle materie prime continua a pesare solo un 20% al massimo (una margherita costa, di sole materie prime, 65 centesimi) rispetto al 75% di quelle che sopporta un ristoratore. Ma nel contempo come giustificare la pretesa che ogni medio ristorante o trattoria di far pagare un primo piatto normale fino a 15 euro? Questa gente che ha perso il senso della misura ma che sta perdendo anche la clientela segue l’andazzo del “resto del mondo”: come si dovrebbe tollerare infatti di pagare in un wine bar toscano 42 euro per 7 calici di Chianti (da una bottiglia che all’esercente è costata 9 euro compresa l’IVA); come non gridare “al ladro” per una piadina, una birra e un gelato sulla riviera romagnola a 20 euro; ma anche come accettare l’inevitabilità di bere ovunque, nei bar, un te freddo in piedi (da una bottiglia da un litro e mezzo il cui costo è di 80 centesimi) a 3 euro che sono ben 6.000 lire?
Basta con la storia che la qualità costa. Lo sappiamo tutti. Dipende quanto, dove e perchè. L’esagerazione delle tariffe italiane sta penalizzando la nostra economia, il nostro futuro, il nostro turismo, il nostro sistema di vita. Questo andazzo non porterà da nessuna parte: se la gente gira e spende meno, sono guai per tutti. Guadagnare meno, ma guadagnare sempre pare sia diventato un concetto squalificante. Un passo indietro però sarebbe obbligatorio.
Ma chi comincia?
Di Elsa Mazzolini