I problemi della stampa di settore sono grandi, specialmente in questo ultimo anno. Testate grandi e piccole sono alle prese con scelte difficili per la propria sopravvivenza. Ma anche alla grande stampa non va meglio.
L’Espresso ha bruciato dall’inizio dell’anno il 51,8% del suo valore pari a 686 milioni di euro, che è più del suo valore attuale di borsa. Mondadori ha perso da gennaio il 35%, mandando in fumo 510 milioni di capitalizzazione. Rcs Mediagroup ha perso, sempre da gennaio, il 54%: 1,8 miliardi di capitalizzazione. Stiamo parlando di cifre e di volumi di denaro ai limiti dell’immaginabile e che ben poco hanno ormai a che fare con la qualità dei contenuti e delle notizie che la stampa dovrebbe veicolare in un’ottica di libera circolazione delle idee e dell’informazione.
E già che parliamo di contenuti, viene spontaneo porsi la domanda che ognuno di noi, nel segreto della sua cameretta, si è già di sicuro fatta più volte: “Tralasciando la grande stampa generalista e di opinione che serve ormai unicamente per spostare la pubblica opinione su un problema piuttosto che un’altro, suggerire leggi e far sopravvivere il mercato generando timori sociali e suggerendo sistemi per avere una maggiore aspettativa sulla durata media della vita; noi (con le nostre testate, le nostre collaborazioni, il nostro lavoro intellettuale) a chi o a che cosa serviamo davvero?”
Domanda ancora più atroce: “Esiste un lettore che paga per godere del prodotto che noi confezioniamo?”
Riducendo molto la questione, potremmo anche ammettere che al momento siamo messi come le ballerine di avanspettacolo degli anni Sessanta.
Sappiamo e conosciamo bene la sensazione di inadeguatezza e la frustrazione che ci portiamo addosso.
Liberi, semi liberi, disoccupati, sottooccupati, altrimenti occupati, comunicatori e comunicati, vittime e carnefici di un sistema di comunicare il prodotto che mostra la corda: ecco cosa siamo nel nostro appartenere alla stampa agroalimentare.
Ognuno di noi giornalisti è costato nella sua carriera lavorativa (a enti, consorzi, ministero, comunità europea e tutto quello che non mi viene in mente) centinaia di migliaia di euro: cifre da capogiro in confronto alla qualità della nostra vita. Quando siamo merce di scambio abbiamo diritto al meglio, ma quando lavoriamo, 200 euro per quattro pagine sono un obiettivo difficile da raggiungere perchè c’è chi quel lavoro è disposto a farlo per la metà e anche lui a sua volta deve guardarsi da quello per cui è sufficiente il rimborso del viaggio: indipendentemente dalla qualità del lavoro, della qualità dei concetti espressi e della cronaca dei fatti. Indipendentemente infine dal metro della scrittura e dalla capacità di farsi leggere.
E torniamo alla domanda di prima. “Esiste un lettore che paga per godere del prodotto che noi confezioniamo?”
Tutto quello che vi ho espresso fino adesso, e tutto quello che ognuno di noi sta pensando, ci porta a pensare che questo lettore non esista.
Forse prova insieme a noi una noia mortale per questa letteratura orfana, inutile e abortiva? Quali frutti può dare la pianta di questa informazione di settore se non quelli di una disaffezione sempre più profonda?
E così, di frustrazione in cattiva informazione, di prodotto stupido in cattiva letteratura, siamo arrivati al momento che viviamo adesso.
Siamo diventati anche noi sintomo e malanno della vita con poche qualità che la gente sta vivendo in questi anni.
Noi specializzati del comparto troppo spesso le domande non le rivolgiamo più neanche a noi stessi, forse perché abbiamo un po’ paura o comunque poche motivazioni per essere curiosi perché probabilmente non abbiamo fino ora saputo trovare una identità forte che ci sostenga nel lavorare.
Il settore alimentare ha i suoi segreti: noi ne conosciamo parecchi. Pochi in Italia conoscono nella fattispecie il settore vitivinicolo meglio di noi. Ma anche se conosciamo a menadito la mappa, che anche noi abbiamo contribuito a tracciare, non siamo più capaci di usarla per orizzontarci su di essa perché non sappiamo più, su quella mappa, dove ci troviamo noi. E se non sai dove sei non riuscirai mai ad arrivare da nessuna parte, mappa o no!
Invito perciò i colleghi ad un confronto, proprio per ritrovare il nostro posto, la nostra collocazione e la nostra dignità professionale su questa mappa. Ed una volta in grado di orizzontarci nuovamente con compiutezza nel comparto, li invito a ritornare protagonisti della nostra professione, della cronaca e dell’analisi. E a condividere questa ricerca.