Nomi nuovi? Pochi, pochissimi. La sofferenza di uno dei prodotti di punta del Belpaese, la cucina, è sotto gli occhi di tutti. Gli chef di fama sono sempre gli stessi, e agli altri non resta che la fame. Di notorietà, ma anche di qualche cliente in più.
Perciò uno chef può anche essere bravo, ma poi si trova a scontrarsi con un territorio difficile, come magari l’Umbria, con un pubblico conservatore e con qualche altro ostacolo di comunicazione. Ovvero, gli ispettori delle guide che non si fanno vedere spesso al ristorante. Eppure Marco Lucentini è un cuoco di talento e anche un ristoratore bravo a tirare la cinghia senza compromettere la qualità delle materie prime utilizzate. Il suo locale si chiama Cantina De Corvi e si trova nascosto fra i viottoli di Spoleto, non proprio la capitale della comunità gastronomica.
Il ristorante è semplice, gode di un’atmosfera familiare come fosse una taverna di qualche decennio fa. Spoleto è una cittadina piuttosto elegante, si accende come un fuoco di artificio solo per due settimane l’anno, quando, d’estate, arriva il Festival dei due mondi e quando, a giugno, si svolge l’evento “Vini nel mondo”. Per il resto è sonnolenta e chiusa come succede in tanti piccoli paesi del centro Italia. Chiusa abbastanza da non essere troppo interessata alle idee in fatto di innovazione culinaria. Neanche se a proporle è uno degli allievi più dotati di Gianfranco Vissani. Lucentini è tornato a Spoleto, sua città natale, dopo tanti anni di peregrinazioni a scottarsi le dita sui fornelli di mezzo mondo, al fianco di Vissani o nelle crociere o negli alberghi dell’Arabia Saudita.
Quattro anni fa ha deciso che la saudade in salsa umbra era troppo forte, basta humus e bentornati strangozzi. Così, come in una canzone di Cat Stevens prima della conversione, ha trovato moglie e un vice giapponese, e alla prima occasione immobiliare si è fatto il suo locale. Il vice giapponese gli assicura di poter andare a fare la spesa tranquillo senza lasciare la cucina sguarnita, la moglie Chott invece sta in sala e si occupa dei clienti. Il meccanismo è oliato, così come la cucina. Che risulta in alcune sue declinazioni un po’ troppo pesanti, ma rappresenta un giusto compromesso fra le vecchie ricette della zona e quelle spruzzate di creatività che vanno piuttosto di moda anche in provincia. Se Lucentini riuscisse ad alleggerire i suoi piatti, il risultato sarebbe a livelli di eccellenza. E’ molto interessante il fatto che dalle esperienze mediorientali abbia preso più che uno spunto per i piatti successivi. Le “umbrizzazioni” dell’humus sono in menu, così come la spregiudicatezza con cui vengono adoperate le spezie. Il tocco del sous-chef Abe è presente in maniera decisa nella decorazione dei piatti, nelle forme e nei colori che si stabilizzano in rapporti quasi architettonici.
Questo è particolarmente evidente nell’entrèe, una composizione “geometrica” di agretti (erbe di campo croccanti e primaverili), finocchio gratinato, quiche di cime di rapa, sformato di broccoli e trota. Un quadro di Mondrian orientaleggiante.
Nonostante questa connotazione che guarda lontano, l’attenzione verso le campagne che circondano la Valnerina è alta. In cantina – da provare i trebbiani spoletini come il Tenuta di Morgnano – così come quando si parla di ortaggi: agretti, sì, ma anche cardi, asparagi, carciofi e farro. La ricerca verso il passato non si ferma neppure quando si arriva ai dolci. Come la crescionda, una torta preparata solo nello spoletino. Ma forse i risultati migliori arrivano con i piatti che intrecciano il passato al presente – o anche al futuro. La terrina di faraona ripiena di foie gras con il pancarrè o le lasagne di cardi e mozzarella di bufala sono ottimi esempi di questo sforzo di avvicinare concetti e sapori distanti.
La Cantina de Corvi è un locale molto raccolto, trenta coperti più una terrazza per una ventina di persona d’estate. Ma un’occhiata la merita, quando si passa da queste parti. Soprattutto se si è l’ispettore di qualche guida gastronomica…
Di Samuele Amadori