Vini e vita senza compromessi
Ci sono storie che si assomigliano. E storie che sono uniche. Rotte tracciate sulla mappa geografica del destino. E segni scolpiti sulla memoria dei luoghi. Punti sfolgoranti che si ergono dal caos e indicano la rotta agli altri. Marco De Bartoli è uno di questi. Un faro. Che però è anche un sistema complesso di luci. Bagliori certo, ma anche segnali, linguaggio. Cantina, carattere, personalità, casa, cucina. Su questo “scoglio” perso nella campagna di Marsala soffocata da vigne e ulivi che si ripetono come un’ossessione dappertutto, ogni cosa racconta di lui.
Le auto d’epoca con cui ha calcato da corridore piste blasonate come la Targa Florio. La cucina, elegante, essenziale, calda, dove riceve gli amici. Il piccolo borgo dove vive, austero, cordiale, romantico, antico. La cantina, un affascinante saliscendi di botti e bottiglie preziose, che è anche un percorso mentale: slarghi, corti, scalini, cancelli, porte di legno. Un avamposto. Forse una guarnigione. Un osservatorio. Lui preferisce definirlo un posto dove si fa il vino. Troppo semplice però. Marco De Bartoli è un uomo da prodigi . Il suo Lazzaro si chiama vino siciliano. La santità se l’è conquistata sul mercato, riuscendo a riscattare un’immagine vecchia e perdente, logorata dallo stereotipo del vino contadino e da taglio. Certo ha dovuto remare controcorrente. Per cambiare la musica ha messo in moto tutta la sua esperienza di vignaiolo cresciuto in una famiglia di industriali del vino marsala da sei generazioni. E c’è riuscito. Prima come presidente dell’Istituto regionale della vite e del vino puntando sulla comunicazione e sulla qualità, poi come imprenditore scrivendo sulla pelle dei suoi prodotti un manifesto di eccellenza che ha ribaltato convenzioni e luoghi comuni. La sua storia la riassume così ad Attilio Vinci nella biografia scritta per Veronelli.
“Il mio primo lavoro nel mondo vinicolo è stato come tecnico nell’azienda di famiglia di mia madre. Le mie idee non erano condivise e allora, dopo alcuni anni, ho deciso di trasferirmi definitivamente al baglio Samperi, una nostra vecchia proprietà. Ho ripristinato il reparto di vinificazione mettendo a posto le cantine storiche. Nel 1980 ho accelerato il primo imbottigliamento del vino che in onore della contrada ho chiamato vecchio Samperi. L’ho presentato come vino di Marsala e non vino Marsala. Un impegno a combattere il declino dell’immagine di questo glorioso prodotto. Poi nel 1985 spinto da un desiderio di curiosità per il moscato passito di Pantelleria, ho imbottigliato il mio primo Bukkuram moscato passito”. Lo snodo della sua vita resta però la presidenza dell’Istituto regionale vite e vino (1993-1997). Una gestione al di sopra delle parti, tutta protesa alla valorizzazione della qualità, la comunicazione internazionale dei vini siciliani, i vitigni autoctoni, le Doc. Fiere, ricerche di mercato, campagne promozionali, sperimentazione, associazionismo. Un grande progetto. L’incantesimo si spezza una brutta mattina del 1995: la Procura di Marsala lo accusa di sofisticazione. Il crimine più infamante per un produttore di vino di alta qualità conosciuto e apprezzato nel mondo.
L’assoluzione cinque anni dopo: tante scuse, il fatto non sussiste. “Quando è avvenuto il fattaccio io stavo prendendo quota. Dopo quindici anni di investimenti mi apprestavo a raccogliere i frutti”, ricorda. “Sono stato colpito nel momento di maggiore crescita. Avrei festeggiato il fatturato più consistente della storia della mia azienda. Una cattiveria, la fine riservata in Sicilia a chi dimostra di sapere fare. Pur sopportando tanti linciaggi morali, nessuno però ha distrutto i miei sogni e la loro realizzazione”. Sul mercato è bastata l’autorevolezza della sua storia a ribaltare le infamie, oggi i suoi straordinari vini continuano a fare il resto. Non ci ha creduto nessuno, critici, enologi, vignaioli, tutti dalla sua parte. Da questa esperienza è uscito fuori deluso, certo anche arrabbiato, ma con le idee sempre più chiare sul mondo del vino. Disposto come sempre a mettersi in gioco, ad accendere dibattiti, a non nascondere la verità.
Le piace il vino siciliano di questi ultimi anni?
No, non mi piace come funziona la Sicilia. Non mi piace come si fa il vino . Molti si proclamano piccoli per impietosire. L’essere piccolo da queste parti gioca un ruolo equivoco sul mercato. Con questa scusa alcuni si giocano la carta di chi vuole intenerire per ottenere di più. Cercano di fare i piccoli per apparire più bravi. E invece non è così. Il risultato? Le bottiglie siciliane convincono sempre di meno.
Un momento di crisi?
C’è una grave perdita di immagine. Il boom è stato dieci anni fa, al termine del mio mandato di presidente dell’Istituto regionale vite e vino. Avevo seminato bene per creare queste condizioni. Poi non c’è stata continuità.
Ma il mercato continua a premiare i vini siciliani…
Io faccio tanti chilometri ogni anno e vedo come va il mercato, e sicuramente per la Sicilia non è un momento buono. La Sicilia va bene solo perché vende i suoi vini a un euro la bottiglia, quindi va male. Siamo diventati il paese che ha i prezzi più bassi e proponiamo dei prodotti che raramente sono all’altezza del mercato internazionale.
Qual è la sua visione del vino?
E’ un concetto che non ho letto, l’ho visto, l’ho praticato. In Italia già quaranta anni fa si è aperta la questione qualità e io mi sono accodato. Fare qualità vuol dire fare il vino. Fare vino è un fatto quasi fisiologico. Fare il vino invece è una cosa seria. Io sono un vignaiolo italiano che produce a Marsala e Pantelleria. Lo sono di reputazione e di mentalità. Nel vino contano tre cose. L’uomo, che deve essere consapevole della serietà del suo impegno. Il territorio con la sua cultura e la sua storia. La cantina.
E’ sufficiente la qualità per essere competitivi sul mercato?
Da mio nonno Paolo Pellegrino ho imparato una regola. Il mercato è di tutti, bisogna saperlo conquistare. E soprattutto trovare la collocazione giusta.
La politica quanto conta in Sicilia nello sviluppo dell’enologia?
Una maledizione. Non fa quello che dovrebbe fare. Quando io sono stato al vertice dell’Istituto, la qualità l’ho portata al massimo. Poi quello che è successo dopo non lo so. Sono un uomo di azione e faccio constatazione, i risultati di immagine e di qualità oggi non sono buoni.
Ci sono errori che tornando indietro non rifarebbe?
Forse non rifarei il presidente dell’Istituto regionale vite e vino.
Perché?
Ho perso cinque anni della mia vita e non c’è nessuno che si ricordi di quello che ho fatto in quel passaggio. Sono stato fregato dalle promesse di continuità che dopo non ci sono state. L’Istituto avrebbe dovuto avere un ruolo costante nella crescita e nel consolidamento della comunicazione della Sicilia. La verità è che le persone perbene qui non devono fare cose pubbliche. In Sicilia si deve babbiare (perdere tempo ndr.).
Perché questa terra di qualità stenta a decollare?
Senza investimenti non c’è crescita. Qualcuno investe per ottenere dopo un contributo, ma questo non è investimento, semmai è un furto. Noi siamo un popolo antico gratificato da un grande territorio.
Abbiamo avuto ricchezze enormi. Negli anni Cinquanta c’erano duecento aziende di Marsala , il benessere era il Marsala. Quelli che qui si sono arricchiti non hanno investito in cantine e nemmeno in territorio. Io ce l’ho con la nostra classe borghese che si è rifiutata di promuovere il cambiamento, lo sviluppo. Hanno messo il denaro banca. Pure io avrei potuto fare così, ma ho scelto un’altra strada. L’impresa per me è sempre stata competizione di marketing.
Una bella scommessa però…
All’inizio sì. A me nessuno ha regalato niente. Anzi ho subito rancori e gelosie. Sono stato invidiato e contrastato. Accusato di sofisticazione enologica, di non avere la licenza di rottamazione per le mie auto. La presidenza dell’Istituto ha sollevato parecchie gelosie.
Fare l’imprenditore vitivinicolo qui cosa vuol dire?
Quando al nord quaranta anni fa hanno cominciato a parlare di vini di qualità, si sono dati delle regole per fare una cordata e portare i prodotti sul mercato. Il modo di ragionare di quelli del nord è mettersi d’accordo e fare squadra. Qui si pratica il disfattismo, si vive in un perfetto e perverso individualismo.
Per paura?
No, per dappocaggine. E’ meglio criticare chi fa. Semplice e non si rischia niente.
E’ il suo modo di fare impresa a fare paura?
Io faccio paura perché dico sempre quello che penso. E dalle nostre parti non è certo un pregio. La diplomazia la conosco ma non la pratico. E’ una forma di ipocrisia. Soprattutto quando dall’altra parte c’è chiusura mentale.
Quale vitigno oggi rappresenta di più la Sicilia?
Prima quello che l’ha rovinata: il nero d’avola.
Perché?
Ormai si coltiva dappertutto. La quantità non tiene conto di condizioni, terreno, clima. Ad un certo punto il mercato ha chiesto il nero d’avola e tutti si sono messi a coltivarlo senza ritegno.
Quelli che invece dovrebbero essere più valorizzati?
Ogni zona ha le sue vocazioni. Io per 30 anni mi sono dedicato al grillo e allo zibibbo. Sono questi i vitigni della mia terra. Mille anni di storia lo zibibbo, quattromila il grillo.
Il mercato che conta cosa si aspetta dalla Sicilia?
Non vedo molta gente che opera con determinazione. La determinazione non è andare nei mercati ma essere accolti dai mercati. Alla fine della fiera resteranno in piedi solo cinque, sei aziende, quelle che riusciranno ad avere più posizionamenti. Le aspettative c’erano, ora è troppo tardi. Posso sembrare pessimista lo so. Le mie lenti guardano dieci anni avanti.