Breve premessa al nuovo fenomeno bianchista italiano
Siamo in piena epoca bianchista.
Ma, attenzione, tutt’altro che centrista, melliflua, cerchiobottista. Bianchista perché ci piacciono i dettagli, adoriamo le rifiniture, apprezziamo le sfumature (stilistiche, interpretative, territoriali).
Siamo tornati bianchisti: tornati si fa per dire, visto che un tempo ci piacevano i bianchi smunti e piatti, oppure quelli paffuti, ma flaccidi.
Siamo diventati bianchisti seri, e parecchio esigenti, questa volta. Desideriamo essere affascinati da personalità organolettiche forti, ma trasparenti, che trasmettano in modo cristallino (puro, autentico, traslucido) la tridimensionalità del vino di terroir. Ci piacciono i vini che sanno spogliarsi, mostrando nudità attraenti. E i rossi, si sa, sono più complicati da spogliare, perché è nella loro natura rimanere vestiti.
Siamo attratti dalle fattezze del vino “finto facile”, odiamo il peso fine a se stesso, apprezzato, al contrario, durante gli anni ’90. Non ci piace il volume senza lo spessore, il grasso senza il muscolo, la polpa senza l’osso. E, per fortuna, la giustapposizione organolettica è nella natura dei grandi bianchi: sono vini che fondono durezze e tenerezze, dolcezze e asprezze. Eppoi tensioni, finezze, sottigliezze.
I migliori si esaltano nei particolari, si nutrono di tecnica e coraggio, di fredda precisione e travolgente passione, di misura e profondità.
Oggi i grandi vini, quelli ricercati da appassionati, specialisti e consumatori consapevoli, sono anche (soprattutto, oserei dire) bianchi. I grandi bianchi, quelli che nascono in territori storicamente vocati, in cui c’è fermento, uomini di valore, espressioni enologiche non omologate, idee stimolanti, progetti ambiziosi. Molte di queste qualità non fanno difetto al Verdicchio dei Castelli di Jesi. Una denominazione in crescita verticale (in crescita qualitativa, intendo) e un vitigno con i fiocchi. Che al meglio non teme rivali.
Il verdicchio. Autenticamente marchigiano
Il verdicchio è un vitigno autoctono, indiscutibilmente marchigiano. Nonostante numerose ricerche ampelografiche, chemiotassonomiche e molecolari hanno accertato una parentela indiscussa con il trebbiano di Soave e il trebbiano di Lugana, il Verdicchio dei Castelli di Jesi dimostra una superiorità espressiva, stilistica, strutturale sulla quale è perfino inutile soffermarsi. La sua qualità, è inutile dirlo, non sta solo nell’uva. Come sempre, è il terroir d’origine che ci mette una “pezza”, che ne impreziosisce la stoffa, che ne plasma il talento. I terreni (in generale calcarei, limoso-argillosi), sono compatti nella parte bassa (sotto i 100 metri di altitudine sul livello del mare) e danno potenza e grasso; friabili tra i 350 e i 550 metri, ideali per la freschezza, il ritmo, la mineralità; di medio impasto (una miscela armonica di argille, sabbie e limi) quelli intermedi, tra i 150 e i 250 metri, che certo aiutano il verdicchio a dare il meglio nell’espressione aromatica, nell’elasticità, nella sapidità.
Le vallate aperte verso l’Adriatico migliorano pure le condizioni climatiche. Assicurano una ventilazione regolare, un clima mai rigidamente continentale, concedendo alla varietà i giusti tempi di maturazione (in genere piuttosto tardivi).
Diciamo che una buona ventilazione è una prerogativa importante pure dal punto di vista strettamente agronomico. Il verdicchio è un’uva esigente, soprattutto in fase di maturazione. Il suo grappolo è grande e compatto, la sua buccia sottile, è, dunque, una varietà sensibile agli attacchi di marciume acido e di botrite. Per questo fuori da questo bacino il suo potenziale (penso alla sua finezza aromatica, alla sue esplosività muscolare, alla sua avvolgenza tattile) viene sensibilmente ridimensionato.
Una grande denominazione italiana
Un ispiratissimo Mario Soldati in Vino al Vino scrisse a proposito del Verdicchio: <
Con tutta l’umiltà del caso, scrivo che il Verdicchio dei Castelli di Jesi (3000 ettari di vigna e almeno venti produttori eccellenti) è lo specchio fedele di quella descrizione, ma da almeno un decennio, anche molto di più. Dimenticatevi quei vini asciugati da un tecnicismo scolastico che per molto tempo si sono prodotti da queste parti. Oggi anche le categorie minori (penso ai “base” delle aziende di riferimento) riescono a comunicare una bella dose di personalità: rimangono sempre pimpanti e godibili, facili, ma sono prodotti con maggiore coraggio interpretativo.
Nelle versioni più ambiziose, il Verdicchio dei Castelli di Jesi è senza dubbio tra i più grandi bianchi del Paese. Sud e nord mescolati, oserei dire, calore e ricamo, pienezza e sobria tensione. Mutevole, plastico, un campione di trasformismo enologico mi viene da scrivere: ora minerale e succoso, ora denso e articolato, ora maturo e cremoso. Non difetta di struttura, è generoso sia nella trama (si dice che è pastoso, a volte), sia nella gradazione alcolica (si dice che è caldo, quasi sempre), sa parlare un linguaggio locale, varietale, tipico (la mandorla, il mandarino, una florealità sottolineata), senza privarsi di stimolanti paragoni con qualche celebre appellation francese: qualcuno dice Loira (per via di una vaga somiglianza “gessosa” che lo avvicina allo Chenin blanc), qualcuno dice Alsazia (quando viene vendemmiato tardi), qualcuno dice Borgogna: per la sua energia e per la sua vicinanza organolettica, soprattutto se fermentato e maturato in legno, con lo chardonnay di quei luoghi.
Non è, va detto, un vino acido. Un tempo si descriveva acido, verdolino, ma non perché fosse un riesling mancato, ma semplicemente perché era crudo, raccolto troppo presto, diluito da rese generose e puntualmente smagrito da un’enologia interventista, industriale, e disattenta ai dettagli – per usare un eufemismo. Oggi, mani e teste preziose per il suo rilancio produttivo e commerciale (un rilancio cominciato alla fine degli anni ’80), lo hanno definitivamente sdoganato dai cliché di un tempo.
Oggi è tutta un’altra storia. Tutto un altro bere.
Oggi, per dirla alla Soldati, c’è solo da leccarsi i baffi.
La storia del Verdicchio nasce con Fazi Battaglia
Per molti in Italia e all’estero verdicchio è sinonimo di Fazi Battaglia. La sua immagine è legata a quella bottiglia a forma di anfora – di recente sottoposta a restyling – che, creata nel 1953, rese immediatamente riconoscibile il prodotto sulle tavole di tutto il mondo. Proprio in quegli anni la Fazi Battaglia amplifica il successo del Verdicchio investendo coraggiosamente in vigneti selezionati nella zona Classica dei Castelli di Jesi. Proprio le vigne diventano l’elemento di maggior impegno dell’azienda che negli anni a seguire sceglie con cura i suoi terreni, tutti collinari e con un’esposizione ideale: 12 vigneti per complessivi 230 ettari di proprietà, tutti ubicati nella zona “Classica” del Verdicchio dei Castelli di Jesi, sono uno dei primi importanti traguardi raggiunti. Nel 1990, la svolta: in azienda arriva Maria Luisa Sparaco, nipote di Francesco Angelini, oggi affiancata dai suoi 3 figli Luca, Barbara e Chiara Giannotti, e con lei inizia una nuova fase: l’anfora Fazi Battaglia è ormai leader del mercato, ma Maria Luisa è più che mai consapevole che le potenzialità del vitigno verdicchio vanno ben oltre….
La rinascita della Fazi Battaglia comincia dai vigneti: affiancata dal noto enologo Franco Bernabei, fino al 2007, inizia una importante fase di sperimentazione sulle tecniche di coltura e vinificazione del Verdicchio e del Sangiovese. L’obiettivo è quello di ampliare la gamma dei prodotti raggiungendo nuovi traguardi qualitativi.
La collaborazione con Bernabei si rivela importante e dà i suoi frutti: il risultato raggiunto in tutti questi anni di collaborazione hanno permesso a questa azienda di crescere qualitativamente attraverso l’esperienza e la ricerca continua, diventando una delle aziende di riferimento in entrambe le aree di produzione, per la qualità ottenuta e per le sperimentazioni tuttora in essere.
I migliori nelle carte dei ristoranti e in enoteca
Il profilo qualitativo della denominazione, nonostante la sostanziosa crescita degli ultimi anni, resta eterogeneo, quantomeno frastagliato. Agli appassionati del genere, ma soprattutto ai ristoratori attenti ai prodotti top, potrebbe far comodo una “mappa” dei vini più affidabili, giusto per facilitare la scelta, evitando, per quanto possibile, inaspettate delusioni.
Consigliamo di non perdersi per nulla al mondo, tanto per cominciare, tutti i Verdicchio prodotti da Aurelio Bucci a Ostra Vetere, da Lorenzo Crognaletti alla Fattoria San Lorenzo, da Lucio Canestrari alla Fattoria Canestrari, da Peppe Bonci della Vallerosa Bonci. Sono veri e propri fuoriclasse della denominazione.
Vale la pena di godersi, poi, la Riserva San Sisto di Fazi Battaglia (le vecchie annate, ma anche un convincente 2004), il saporitissimo Verde Cà Ruptae 2007 e la cristallina Riserva Vignali 2004 di Terre Cortesi Moncaro (ma anche un 2002 di stampo alsaziano che ancora oggi ammalia e ingolosisce).
Ci si può affidare, se lo si preferisce, agli evergreen, giusto per non rischiare. Il Tralivio e il Balciana di Sartarelli (meglio il 2004 per entrambi), la Riserva Plenio 2004 di Umani Ronchi, Macrina 2006 e Podium 2004 (se trovaste le vecchie annate, ancora meglio!) dei Garofoli di Castelfidardo.