Non c’è posto per tutti
Sono sempre meno interessata al fiume di congetture sparate sul web, relative allo stato di salute della ristorazione in Italia.
Da quando questo argomento è diventato vulgata a tutti accessibile e da quando, soprattutto, sono i social a diffondere il verbo, gli sproloqui sono tali e tanti da procurarmi il rigetto.
Certo leggo, leggo per lavoro, per innata curiosità, per una bulimia che mi porto dietro dall’infanzia e che mi spinge a leggere compulsivamente la qualunque, ma francamente trovo che gli opinionismi personali del web rappresentino solo un vacuo esercizio meramente autoreferenziale, nella maggioranza dei casi privo di una reale competenza e autorevolezza di giudizio.
Al solito, sono i numeri quelli che contano e i numeri parlano effettivamente di una sofferenza che sembra ascrivibile ad un ipertrofismo del mercato e a un’offerta generale stanca e poco credibile.
Le imprese di ristorazione che hanno chiuso nel 2023 sono state quasi 30.000 a fronte di 10.000 nuove iscrizioni alle Camere di Commercio, con un saldo negativo che si perpetua da tre anni, ma che non è sufficiente a mitigare l’esubero di locali che a vario titolo somministrano alimenti (quasi 400.000 realtà imprenditoriali per un fatturato di 92 miliardi di euro).
Curioso anche notare che sono oltre 50.000 le attività gestite da stranieri, quasi a significare che per molti l’Italia sembra rappresentare ancora il Paese di Bengodi e che il mestiere del cuoco o del ristoratore sia il più facilmente praticabile.
Ad ammalorare il settore, tuttavia, sono gli esercizi mordi e fuggi specie ad apertura estiva, la bassissima qualità dell’offerta a prezzi comunque da rapina, ma anche lo scopiazzamento di carte menù prive di una propria identità e l’eccesso di una inutile mal gestita creatività nei piatti.
Il male dell’inutile creatività contagia purtroppo anche la fascia del fine dining, dove non può più essere la propostina un po’ arzigogolata a giustificarne il costo elevato.
Chi paga oggi volentieri la fa sempre di più nei locali empatici, a cui non difetta la generosità e l’affabilità verso il cliente, e lo fa soprattutto nei locali di fortissima personalità, che hanno fondato la propria riconoscibilità su una cucina di prodotto, che si fa ricordare perché appagante non solo agli occhi.
Scrivo da sempre che la gente non vuole pagare il lusso del ristoratore, bensì il proprio, e oggi il lusso è fatto dal piacere che ognuno riesce a concedersi in termini soprattutto di tempo, di spazi individuali, di benessere.
La ristorazione è ancora il viatico più diretto per rispondere a queste esigenze e potrei citare centinaia di ristoranti che lo stanno offrendo con successo, pur nelle difficoltà legate oggi a un eccessivo costo delle vita che colpisce una buona parte della possibile clientela.
Basterebbe saper scegliere…