Di La Madia
“Tutti parlano di buona cucina, ma non hanno i soldi, il tempo, la casa per farla”. Giorgio Bocca
L’avreste dovuto leggere tutti “L’antitaliano” di Giorgio Bocca sull’Espresso del 5 maggio scorso. Per capire come il malessere riguardante la finta favola della buona cucina serpeggi ormai anche tra gli intellettuali veri e tra gli storici del costume, infastiditi da cicaleccio mediatico intorno ai fornelli e alle botti di vino, stanchi di vedersi assediare da una “cultura gastronomica” che di cultura ha sempre meno e che, come la marmellata, si spalma sempre piú sottile, a giustificare qualsiasi cavolata istituzionale ci venga propinata.
Forse è vero che per fortuna, come scrive l’autorevole New York Times, l’Italia è un Paese di irripetibili prelibatezze ancora autentiche, ma è altrettanto vero che un sistema economico e sociale che ha istigato allo spopolamento delle campagne e alle colture intensive con sempre minor valore, ha nel contempo favorito la lobby del tomino da oreficeria, la P2 della lonzetta da boutique extralusso, la loggia massonica della lenticchia simil caviale. Tutte riunite sotto un cartello che stabilisce prezzi sempre piú alti, perché la cultura – del vino, del cibo, dei presidi a tutela di – si deve pagare. Molto. Sennò non è cultura.
Ci siamo ridotti a comprare cioccolato non “tagliato” da pusher sempre piú esosi, ci facciamo taglieggiare da colletti bianchi pentiti e da nobili piú o meno decaduti che danno ad ogni prodotto della terra a cui sono tornati, ormai abbandonata dai compianti contadini, il valore della California ai tempi della corsa all’oro.
Pecorini del valore oggettivo di 4/5 euro a 20 euro il chilo, vini a “non meno di 15 euro” perché altrimenti non sono neanche da prendere in considerazione secondo neo produttori illuminati.
La normale stagionatura oggi si chiama “affinamento”, la fermentazione nelle botti diviene “elevazione”: cambiando i sostantivi si è voluta dare una dignità diversa ai prodotti piú normali. E bisogna pagarla.
“E’ proprio il sapere che non è vero che ingigantisce la moda, che la diffonde. Tutto nella società contemporanea congiura contro la buona cucina… Cuochi pasticcioni che si agitano tra dieci fornelli, mettono assieme cento alimenti, duecentro ingredienti, per una voracità primitiva incapace di distinguere, di selezionare e rispettare odori e sapori…” dice Giorgio Bocca.
Si tratta del lamento di un anziano che non si rassegna al malessere del benessere? No. Probabilmente è il commento dell’acuto giornalista che capisce i danni incalcolabili di una informazione fasulla, funzionale agli interessi di caste sempre piú privilegiate.
Compresa quella dei ristoratori, perché no?
Quanti nascondono l’insipienza della loro cucina dietro lardi e formaggette varie? Di fatto siamo arrivati ad una crisi del sistema ristorativo che deriva anche da eccessi che mascherano carenze.
E intanto che ci gingilliamo tra questi pseudo problemi, un popolo di due milioni e mezzo di lavoratori ha perso il valore del proprio buono pasto quotidiano e altrettanti si accontentano di pranzare con schifezze a 20 euro.
Perché il prosciutto buono è presidiato e costa caro. In giro circola solo quello che costa poco e vale ancora meno.