Vorrebbero metterci con le spalle al muro. Secondo qualcuno dovremmo scegliere da che parte stare, di qua o di là. Ma il fatto è che il conflitto non ci coinvolge emotivamente, e neppure razionalmente. Sto parlando della cosiddetta “guerra delle D.O.P.”. Per i lettori che non avessero seguito, ricostruiamo in due parole la vicenda. Il mondo della produzione agroalimentare si avvierebbe ad una drammatica spaccatura tra “artigiani” e “industriali”. I primi avvinghiati al purismo intangibile delle tradizioni, i secondi cinici banalizzatori e massificatori del gusto. Ultimamente lo scontro si sarebbe fatto feroce, con scissioni nei consorzi di tutela, rancori insanabili e accuse infamanti che rimbalzano da un fronte all’altro. Insomma, un solco sempre piú profondo, un conflitto epocale fra visioni del mondo opposte e inconciliabili. Alla fine, l’artigiano si ritira orgoglioso sulle sue montagne inaccessibili, mentre l’industriale è finalmente libero di intrugliare e ingannare a piú non posso. Questo sarebbe lo scenario che si va profilando. Uno scenario fosco, che però a qualcuno piace (perchè coincide col suo approccio filosofico-commerciale). Costoro lavorano per renderlo sempre piú fosco. Ma noi a questo giochino non ci stiamo. Vorrebbero che ci schierassimo, ma è chiaro che a queste condizioni la battaglia sarebbe persa comunque. Persa soprattutto per il consumatore, che ci rimette in ogni caso. Quel favoloso formaggio artigianale, unico e irripetibile, non arriverà mai sulla sua tavola. Perchè, paradossalmente, è proprio l’industria che potrebbe farcelo arrivare. Ma se l’industria lo farà – ci dicono – sarà solo alle sue condizioni: ridurre l’eccellente al mediocre e lo speciale all’ordinario. Bene, siamo proprio sicuri che non esistano soluzioni intermedie? Noi crediamo di sì. Del resto è la stessa realtà socio-economica a raccontarci una storia diversa: infatti in Italia non esistono solo mastodonti e microimprese ma c’è una grandissima quantità di aziende di medie dimensioni che sarebbe difficile classificare usando l’accetta (o di qua o di là!). La realtà è troppo frastagliata e complessa perchè si possa credere alla favola dei buoni e dei cattivi. All’artigiano santo e all’industria demoniaca. Siamo convinti che debba esserci un modo realistico per conciliare la bontà di un prodotto, la sua reperibilità, e infine il prezzo di vendita abbordabile. Si sta facendo strada un principio che fino a ieri sarebbe parso utopistico, ma che oggi, forse per la prima volta nella storia, è all’ordine del giorno: l’industria deve farsi carico ANCHE della qualità, essendo la sola che può farlo su vasta scala. Sarà un processo lento e faticoso, ma prima o poi dobbiamo arrivarci. O almeno tentare. Ciascuno nel proprio ambito deve fare degli sforzi in questa direzione. Noi della Madia lo facciamo da sempre. I lettori avranno certo notato che intratteniamo con i grandi marchi, con i giganti dell’agroalimentare, un rapporto dialettico, di confronto continuo e serrato, di attenzione e insieme di stimolo, scevro da chiusure pregiudiziali, tutte ideologiche. Abbiamo cominciato anche ad affrontare il tema in modo organico, con alcune riflessioni di ampio respiro. Forse ricorderete quel “Vino buono per tutti!”, che suonava anch’esso a prima vista come uno slogan irrealistico, ma che abbiamo cercato di motivare proprio attraverso un’analisi non superficiale delle tendenze di consumo. Il discorso fatto in quella sede per il vino è a maggior ragione valido per altre componenti della spesa quotidiana. In una situazione preoccupante di calo dei consumi alimentari, dovuta al rarefarsi delle risorse economiche delle famiglie, non crediamo che la domanda crescente e diffusa (anche se spesso confusa) di qualità possa essere soddisfatta solo da piccole produzioni artigianali, magari salvate dall’estinzione con qualche artificio. Intendiamoci: ben venga il recupero della “Salamina speziata di Castel Pippero di Sotto”, prodotta in cento esemplari già fumati prima della produzione. Daremo spazio volentieri anche a cose del genere (ammesso che qualche volta ce ne tocchi un assaggio), ma non veniteci a dire che il futuro dell’alimentazione si baserà su questo. Divertiamoci pure a fare i collezionisti di rarità gastronomiche ma preoccupiamoci anche di sostenere il faticoso tran tran quotidiano di chi col cibo non ha un rapporto così romantico (spesso perché non se lo può permettere). In tale prospettiva, demonizzare l’industria non solo è uno sterile gioco da ‘radical scic’, ma è un vero e proprio suicidio. Al contrario, aiutare – anche con la critica – le grandi aziende che intendono migliorarsi sotto il profilo della qualità (e di sicuro ce ne sono) significa non solo fare qualcosa di socialmente utile a breve, ma anche intraprendere un’operazione di grande valore culturale in prospettiva: un popolo che mangia mediamente meglio sarà in futuro piú propenso a cogliere tutte le sfumature del bello e del buono.
Di La Madia