Ha destato un certo scalpore il fatto che recentemente lo chef Christian Puglisi – cuoco e proprietario di una serie di ottimi ristoranti a Copenaghen, posizionato al 69° posto secondo la discussa guida 300 Best Chef – abbia dichiarato che “non gli frega un beneamato cavolo” del punteggio, “perché non si possono classificare le persone” e “perché non mi sono candidato ad alcuna elezione”.
Oddio! Un marziano è sceso tra noi?
No, finalmente è un cuoco a sostenere che non ha senso “ridurre l’arte della gastronomia e della convivialità ad un sistema costante di competizione”, pur ammettendo che guide e punteggi positivi aiutano a vivere.
La sua ironica dichiarazione che si può leggere integralmente su munchies.vice.com (“dobbiamo aspettarci la lista dei 50 chef meglio vestiti – e vincerebbe sempre Dacosta – o quella dei meglio tatuati”?) ci invita a riflettere sul fatto che il gusto rientra comunque nella sfera della soggettività e che sarebbe il caso di imparare a formare una propria coscienza critica, smettendo di vivere attraverso quella altrui.
Insomma, ciò che per me è un concetto totalmente ovvio, risulta totalmente astruso in un sistema di classifiche ormai supinamente accettato dalla categoria stessa di cuochi e ristoratori.
Io sono convinta invece che quell’apparato critico per forza di cose non omogeneo, mostri da sempre la corda della propria arbitrarietà.
Un conto per uno chef è iscriversi al proprio torneo di calcio dove regole, arbitri, avversari, sono ben noti (come nel caso dei concorsi professionali a cui uno chef può decidere di iscriversi), un conto è subire – in fondo come sul vituperato Tripadvisor – le logiche e i giudizi imperscrutabili delle varie guide che spesso giocano coi punteggi per far notizia.