“I libri non hanno alcun bisogno degli autori, una volta che sono stati scritti”.
Con questa asserzione la misteriosa scrittrice Elena Ferrante rivendica il suo diritto ad essere invisibile, dietro alla propria scrittura. Malgrado il successo mondiale. Malgrado l’establishment culturale le stia dando la caccia per scoprire chi si nasconde dietro questo evidente pseudomino. E a costo di dover/voler rinunciare anche allo Strega.
Proviamo a sostituire la parola “libro” con “piatto” e pensiamo quale fantastica libertà ideologica ci potremmo prendere se solo riuscissimo a spogliarci dalle sovrastrutture mentali e ci godessimo le cose esattamente per quelle che sono. Senza farci condizionare dal nome del loro autore (anche perché, nelle cucine blasonate, l’esecutore non è quasi mai colui che ha concepito le proprie “opere”). In fondo proprio questo sembra suggerire la Ferrante: la possibilità di godere di un prodotto ben fatto esattamente per quello che è, senza sudditanze psicologiche.
A quanti di noi è successo, infatti, di andare a mangiare nei ristoranti mai segnalati da nessuno e di scoprire veri e propri fenomeni dei fornelli. Anonimi. Silenziosi. Ma straordinari.
Dopo la sovraesposizione mediatica, dopo l’eccesso di protagonismo dei cuochi, sono certa che molti apprezzerebbero dunque qualche misurata assenza, qualche oasi di silenzio contro il rumore delle troppe parole.
La capacità di porsi ogni tanto dietro la scena, fuori dai riflettori, favorisce spesso una maggiore propensione all’ascolto degli altri. E’ apertura, non chiusura.
Ricordate quella pubblicità: “Silenzio, parla Agnesi”? Spot profetico. Che a parlare siano quindi il libro, la musica, un abito, una foto… un piatto, solo per ciò che riescono a comunicare.
Tutto il resto, ormai, è noia.