Di Elsa Mazzolini
Vorrei fare un (forse) indebito e opinabile parallelo per sostenere che la semplice formula matematica utilizzata da Giampiero Fiorani per arricchirsi è, a mio avviso, la stessa applicata anche da molti ristoratori, con la sostanziale differenza che, almeno, questi ultimi ne fanno un uso dichiarato.
Al banchiere è bastato addebitare 30 euro pro-capite di inesistenti “spese tenuta conto” ad un milione di correntisti, per incassare 30 milioni di euro: in breve Fiorani è riuscito ad accumulare un patrimonio personale di 200 milioni di euro. Ora ditemi chi non si è ritrovato – quando è riuscito ad accorgersene – bollete gonfiate “per errore” dalle varie società pubbliche e private che ci concedono luce, gas, linee telefoniche e servizi, peraltro sempre piú cari. Per la gente comune il controllo e la verifica dell’esistenza di “addebiti indebiti” non è facile e persino la legittima rivendicazione dei propri diritti è vincolata ad estenuanti braccio di ferro telefonici con operatori che, quando non ti lasciano in attesa 20 minuti, fanno cadere la linea forti dell’omertà dell’anonimato. Il fatto è che ormai ci stiamo rassegnando a convivere con i furti quotidiani e a subire le inevitabili vessazioni della vita civile. O della convivenza incivile. Purtroppo però c’è qualcosa di estremamente pericoloso nel sistematico smantellamento che dovrebbe stare alla base di ogni società. Il capitalismo italiano che all’etica del lecito profitto dimostra di anteporre la pratica dell’arricchimento a scapito del piú debole, ingenera mostruosi processi di emulazione: se in alto si ruba, in basso ci si sente legittimati a fare altrettanto.
Cosa c’entrano i ristoratori con tutto ciò e qual è il parallelo che li riguarda?
Intanto va detto – e qui vorrei che vi ricordaste della nostra “Piramide della ristorazione” pubblicata a novembre – che sono molti a credere che l’enogastronomia sia una scorciatoia per fare soldi in fretta: di fatto, una vasta gamma di ristoratori “furbi, banali, o mediocri”si sente autorizzata a presentare ai clienti conti da rapina. Lo fanno anche altre tipologie di commercianti, è vero, ma questo non fa che confermare la distruttiva tendenza in atto, euro e politica permettendolo. Ma (e qui, finalmente, vengo al fastidioso parallelo con il “sistema Fiorani”) c’è da denunciare quel balzello deprecato da molti giornalisti di settore, mal sopportato o subito dai clienti, incongruente perché penalizza chi piú spende, le famiglie, i gruppi piú numerosi: il costo del “coperto”.
Gianni Mura proprio di recente in una recensione sul “Venerdi” di Repubblica additava questa tassa come l’unica nota negativa del ristorante visitato. Quei tre euro (o cinque, o di piú, secondo le pretese del locale) applicati ad ogni cliente, a fine giornata possono diventare 300 e a fine mese magari 8 – 9 mila euro. Non poco. Ma non mi si venga dire che una famiglia di 4 persone dovrebbe sborsare 12 euro (ossia ben 24 mila lire) per avere il diritto di mangiare in un piatto, su una tovaglia pulita. Con la stessa logica un fioraio dovrebbe far pagare, per esempio, 2 euro per il terriccio di una pianta che acquistiamo, o un euro per il cellophane con il quale ce la confeziona, oppure la boutique potrebbe aggiungere il prezzo del tempo speso dalla commessa per servire il cliente o della busta per incartare l’abito. E di fatto lo fa: è normale che ogni costo gestionale vada ricaricato sul prodotto, ma c’è modo e modo di farlo. Il servizio di ristorazione dovrebbe essere soprattutto questo: un servizio.
Nell’espletarlo è giusto e logico che il ristoratore tenga conto di tutte le proprie spese e che le ricarichi organicamente su ogni prodotto: un po’ piú sui piatti di basso costo, un po’ meno su quelli già di per sè costosi. Così dovrebbe essere, e non è, con il vino.
Ma pretendere di pesare a parte la voce “coperto” o “servizio” mediante un’obbligatorietà che il cliente si trova espressa in calce al menú e spesso neanche in modo molto evidente, è contrario alle regole dell’ospitalità e, a volere andare per il sottile, a quelle della trasparenza, in quanto pochi clienti si alzano se al momento di ordinare si accorgono del costo del servizio o coperto che sia. Casomai risparmiano sul dolce…
Per concludere, mi piacerebbe che una categoria che fa dell� dell’ altrui benessere conviviale, dello spirito di servizio, delle regole di bon ton alcuni dei suoi punti di forza, si compiacesse di offrire ai propri clienti l’illusione di sentirsi ospiti ben ospitati, piacevolmente obbligati a pagare un bene nel suo complesso, lavanderia, pane e pulizie inclusi.
So già che molti ristoratori non saranno d’accordo…