Troppo bello. E troppo pubblicizzato. Fino a ieri paginoni di quotidiani e servizi televisivi inneggiavano al “boom” degli home restaurant come alternativa trendy e apparentemente economica a ristoranti e trattorie.
Inevitabile che il Governo attivasse il sistema bancomat appena annusata l’aria di possibili soldi da riscuotere.
Inevitabile e anche logico. Tra i 19 profili di evasori individuati dal nostro Stato, sarebbero infatti di sicuro entrati dritti dritti anche coloro che avevano deciso di mettere a reddito la propria vera o presunta ars cucinandi, a rischio e tasse zero (se rimanevano al di sotto dei 5.000 euro di reddito).
Tanto poi, chi li sarebbe andati a controllare?
Ma questa faccia della sharing economy pare già festa finita.
Il vuoto legislativo in cui speravano di galleggiare tanti neoCracco casalinghi, si sta ormai riempiendo di norme e codicilli.
E d’altra parte non si capisce perché il coacervo di regole a tutela della salute dei consumatori deve essere obbligatorio solo per i locali pubblici, quando anche nelle case private dei cooking lovers si effettua lo stesso servizio di somministrazione di alimenti su compenso.
Il parere del Ministero allo Sviluppo Economico non è ancora legge, però la Fipe, già malmostosa nei confronti di questa ennesima forma di concorrenza sleale ai ristoranti, invoca controlli severi da parte dei comuni.
D’altra parte, se i cuochi improvvisati ammettono che, attraverso il social eating, arrotondano i propri introiti, la neonata associazione Home Restaurant Italia ne fa una questione di salvaguardia delle tradizioni, il che, detto tra noi, sembra un po’ pretestuoso, perché questo ruolo è già ricoperto abbondantemente, quantomeno, da locande e trattorie gestite professionalmente.
Dunque, se c’è chi vuol far fruttare economicamente un proprio hobby, a mio parere dovrebbe farlo unicamente attraverso piattaforme come Airbnb e Gnammo, così che il danaro dei clienti sia tracciabile e l’attività meno clandestina.
Diversamente la giungla degli home food 2.0 dove tutti si improvvisano chef, ma nessuno paga il dazio con la scusa che si tratta di transazioni tra privati, potrebbe risultare dannosa sotto vari punti di vista. La macchina o la casa da condividere sono ben altra cosa rispetto al cibo modello Uber.