![Vitigni della Lombardia, panorama vista vigneti e colline Vitigni della Lombardia, panorama vista vigneti e colline](https://www.lamadia.com/wp-content/uploads/2022/06/Autoctoni-P2-Franciacorta-vigneti.jpg)
Nel Bresciano Invernenga ed Erbamat si stanno riaffermando. In Oltrepò va a ricomporsi quel mosaico di varietà scomparse per la fillossera, Mornasca in testa. Nella bergamasca il Moscato di Scanzo è sempre più apprezzato. Alto Lario e Valtellina riscoprono Verdese e Pignola. Nel gardesano, sugli scudi il “ritrovato” Groppello Gentile; nel mantovano svetta il Lambrusco Viadanese.
L’industriosa Lombardia riserva sorprendenti risvolti in materia di vitigni autoctoni “minori”; molte varietà annientate nei primi decenni del secolo scorso dalla fillossera, sono in questi ultimi anni state rilanciate, sulla scia di quella tendenza alla valorizzazione della biodiversità che tanto sta incidendo sul settore vitivinicolo e sull’agroalimentare in generale.
A latere quindi dei vitigni indigeni più noti: Croatina, Chiavennasca, Barbera, Trebbiano di Lugana…, si sta ricomponendo un mosaico di cultivar prematuramente date per estinte.
Parliamo delle bresciane Invernenga ed Erbamat, quest’ultima oggi inserita nel rinnovato disciplinare del Franciacorta; del lariano Verdese, protagonista del ritorno della viticoltura sul lago di Como; della valtellinese Pignola Nera, da sempre considerata solo una varietà complementare rispetto alla Chiavennasca e ora anche solista, di alcune uve oltrepadane – Moradella, Uva Rara e Uva della Cascina – che sino a inizio ’900 andavano a costituire un incredibile puzzle poi drammaticamente impoveritosi ma ora in via di “ripristino”; non dimenticando quei vitigni che, nonostante la loro storica identità territoriale, per le più svariate ragioni sono rimasti legati a produzioni di nicchia, come Moscato di Scanzo, Lambrusco Viadanese e Groppello Gentile..
FRANCIACORTA PER BATTERE CALORE E OMOLOGAZIONE, ARRIVA L’ERBAMAT
I principali motivi che hanno portato al progetto di recupero dell’Erbamat in Franciacorta – spiegano dal Consorzio Tutela del Franciacorta – sono da ascriversi a due temi principali: la volontà di recuperare una maggiore identità e diversificazione del prodotto grazie ad
un approfondito legame con il territorio e la necessità di mitigare gli effetti del cambiamento climatico sui precoci Chardonnay, Pinot Bianco e Nero. L’attenzione del Consorzio nei confronti dei vitigni storici bresciani nasce già nel 2009, e fin da subito l’Erbamat si è mostrato il più interessante; ciò per il suo profilo aromatico neutro, il ciclo vegetativo medio-lungo, la buona tenuta del tenore acidico. Un vitigno capace di rafforzare il legame vino-territorio, differenziare il prodotto e bilanciare i continui anticipi vendemmiali: trattandosi di una varietà piuttosto tardiva e di lenta maturazione, offre ottime prospettive per conferire freschezza alle basi spumante, che stanno via via perdendo il loro nerbo acido. Per il momento, con il nuovo disciplinare in vigore dal 1° agosto 2017, la sua presenza resta limitata a un massimo del 10% delle cuvée;, ciò per non incidere troppo repentinamente sul profilo sensoriale dei Franciacorta e per il fatto che la fase di sperimentazione non si è ancora conclusa.
Fase che vede coinvolte aziende quali Barone Pizzini, Cà del Bosco, Castello Bonomi, Ferghettina, Guido Berlucchi, Ronco Calino.
L’ALTO LARIO, DOPO LA FILLOSSERA, CERCA IL RILANCIO. E RIPARTE COL VERDESE
Il Verdese è vitigno di antiche origini della provincia di Como, quasi scomparso dopo l’arrivo della fillossera anche per via della sua fragilità colturale. Da qualche tempo la viticoltura Lariana è in fase di moderato rilancio, sancito anche dal varo dell’Igt Terre Lariane, ed ecco allora che questa rara cultivar, salvata dall’estinzione, sta tornando a essere coltivata, sia pure su pochi ettari, nei terrazzamenti sopra Domaso (Alto Lago di Como). Tra le rare interpreti di questa varietà v’è Cantine Angelinetta. Racconta patron Emanuele: “In vigna abbiamo optato per un allevamento a Guyot, con capo a frutto di 8 gemme e sesto d’impianto di 80 x 170 cm, con esposizione a sud sud-est, su suoli terrazzati di natura acido-sabbiosa. Abbiamo deciso di impegnarci nel rilancio di questo vitigno perché è in pratica l’unico autoctono del Lario, valorizzandone la sua principale caratteristica, ossia la sapidità, capace di bilanciare il suo basso tenore acido”.
Dopo varie sperimentazioni è stato scelto un protocollo di vinificazione basato sull’iperossigenazione e sul solo impiego dell’acciaio.
Ossidando il mosto, l’ossigeno si lega agli abbondanti tannini, creando molecole pesanti che si depositano, così da avere alla fine un vino già stabile e bisognoso di poca solforosa. Nonostante la sua scarsa acidità, si preferisce comunque svolgere la malolattica per dare maggior grassezza, confidando nella grande sapidità del vino come elemento di armonizzazione gustativa. Pronto sin da giovane, dopo qualche anno di bottiglia il Terre Lariane Igt Bianco La Moglie del Re sviluppa intriganti sentori balsamici, di liquirizia e pietra focaia.
NEL VIGNETO URBANO PIÙ GRANDE D’EUROPA, RISORGE L’INVERNENGA
L’antico Vigneto Pusterla di Brescia, con i suoi 4, ha è il più grande vigneto urbano d’Europa, arricchito dalla presenza di antichi ceppi secolari. Lo gestisce Maria Capretti dal 2011, erede dello storico proprietario Mario Capretti. Suo scopo è di riportare il vigneto agli antichi splendori, investendo in lavori di ripristino delle “balze” e in nuovi impianti di 5.000 barbatelle. Si tratta dell’unica coltivazione estesa di sola uva Invernenga, vitigno a bacca bianca che ha rasentato l’estinzione a causa della fillossera. La tenuta dimora sulla sommità di uno sperone calcareo stratificato, con marne e noduli di selce; composizione e pendenza del suolo assicurano il drenaggio; le correnti pomeridiane dal monte Guglielmo rinnovano e puliscono l’aria; l’esposizione assicura all’uva un corretto apporto di luce solare. Adatta per essere coltivata a pergola, la sua tardiva maturazione esige ottime esposizioni delle vigne – evitando però insolazioni dirette che la scotterebbero – e terreni poco fertili dato il suo vigore.
L’acino è succoso, giallo-verde, dalla buccia molto spessa, che la protegge dagli attacchi di muffa grigia, e ricca in polifenoli. La maturazione avviene tra fine ottobre e inizio novembre.
Se ne ricavano due vini: il varietale Pusterla Bianco, ricco di acidità minerale, e il più grasso e complesso Pusterla 1037.
QUEL FASCINOSO PIGLIO SELVATICO DEL ROBUSTO LAMBRUSCO VIADANESE
Diversi biotipi di Lambrusco possono concorrere nell’assemblaggio del Lambrusco Mantovano Doc, ma il più identitario è senza dubbio il Viadanese. Tradizionale del territorio, dall’intesa colorazione, ha nel suo DNA un’accentuata componente selvatica, ancor più evidente rispetto agli Lambrusco; il che conduce a vini dagli zerghi sentori di ribes rossi, fragoline e viola mammola.
Un patrimonio terpenico che si traduce al gusto in sensazioni piacevolmente amaricanti, che chiudono su note mandorlate, nel quadro di una lunga, fresca, sapida persistenza. Il Rosso dei Concari dell’azienda Lebovitz di Governolo di Roncoferraro (MN) è la punta di diamante di questa realtà mantovana, che racchiude in sé la piena identitarietà di questo frizzante della terra dei Gonzaga.
Lo si ottiene dalle migliori uve di Lambrusco Viadanese (50%), Maestri e Marani, sottoposte a un periodo di criomacerazione a -5°C e a un successivo processo di lenta fermentazione; il tutto per esaltarne i gusto polposo, secco, intenso e calibratamente acido, e per concentrarne il bouquet, all’insegna di note fruttate di ciliegia e floreali di viola mammola molto eleganti; pur ottimo bevuto nell’annata, le sue caratteristiche di robustezza, anche alcolica, lo rendono pronto a un moderato quanto interessante invecchiamento.
LA SECONDA VIA DELLA MORNASCA, TANTO POTENTE QUANTO VERSATILE
Spiega Domenico Cuneo, di Cascina Gnocco di Mornico Losanna (PV): “Il ‘Progetto Autoctoni’ nasce dal desiderio di raccontare il nostro territorio utilizzando solo uve oltrepadane, e in particolare la rossa Mornasca, che alcuni secoli fa, si ambientò proprio nei vigenti di Mornico.
Con questa idea in mente, da qualche anno abbiamo abbandonato la coltivazione di cultivar alloctone”. Impiegata nella prima metà del ’900 per soddisfare l’abbondante richiesta di vino del milanese, essendo molto produttiva, nel secondo Dopoguerra è caduta nell’oblio, sostituita da uve più à la page.
“Alcuni anni fa, a seguito seguito della nostra riscoperta di quest’uva data per estinta, e quindi nemmeno autorizzata, ci siamo adoperati per il suo inserimento nel Registro Nazionale dei Vitigni, così da poter tornare a impiantarla”.
Nel 2005 Cuneo, dopo varie sperimentazioni svolte grazie a un piccolo vigneto di proprietà, comprende appieno il potenziale di questa cultivar e la sua versatilità, gettando le basi per la produzione di un Vino Spumante Metodo Classico Rosé e per un rosso di struttura da uve raccolte tardivamente, il Provincia di Pavia Igt Rosso Orione.
La chiave di volta è stata quella di comprendere l’importanza di effettuare potature corte per contenere le naturali e abbondanti rese del vitigno, in contemporanea a una raccolta particolarmente tardiva delle bacche.
PUNTO DI FORZA (E DI DEBOLEZZA) DEL MOSCATO DI SCANZO? LA SUA ASSOLUTA RARITÀ
Il Moscato di Scanzo è un’uva oggi coltivata nel solo comune omonimo della bergamasca e aree limitrofe. Di origine ellenica e portato a dimora sui colli di Scanzo dai coloni romani, è varietà che ama terreni ben esposti e asciutti, suoli magri e ricchi di scheletro, calcareo marnosi.
Dai grappoli spargoli, allungati e alati, ha acini piccoli e scuri, dalla buccia sottile e pruinosa. Punto di forza di questa varietà è la sua rarità e il suo legame con un territorio molto piccolo, dando origine a un passito del tutto unico; rarità che al contempo è anche punto di debolezza: un’area di coltivazione di soli 31 ettari, per una produzione complessiva di 60.000 mezze bottiglie l’anno, rende quasi impossibile divulgare questo prodotto al di fuori del proprio territorio. Tra i protagonisti di questa viticoltura di nicchia vi è l’azienda De Toma di Scanzorosciate (BG), fondata nel 1894 da Giacomo De Toma, tra i primi a produrre in epoca “moderna” il Moscato di Scanzo passito, rilanciando una secolare tradizione che pareva sopita. Oggi la cantina è condotta da Stefania Castoldi e dal marito Giacomo De Toma, pilota-comandante d’aereo e agronomo per “hobby”; professione che gli ha permesso di far conoscere questa chicca enoica in tutto il globo. Dopo un appassimento di 40 giorni e una la lenta fermentazione, il nettare di De Toma riposa in acciaio (per conservare il carattere varietale del vitigno) per 22 mesi e in bottiglia per altri 6. Il tutto per un vino speziato, dai ricordi di rosa, salvia, ciliegie e cassis, per un sorso caldo di alcol, fresco, concentrato ma di grande armonia.
DA COMPARSA AD APPREZZATA SOLISTA, IL CURIOSO DESTINO DELLA PIGNOLA VALTELLINESE
La Pignola Nera, affine al vercellese Pignolo Spanna (ma nulla c’entrando col friulano Pignolo), e pertanto forse originaria del Piemonte, è oggi riscontrabile quasi solo in Valtellina e Oltrepò Pavese. Sebbene quasi sempre impiegata come vitigno complementare alla Chiavennasca (il Nebbiolo valtellinese), alcuni produttori cominciano a impiegarla anche in purezza; come Marco Triacca, patron de La Perla di Teglio (SO). “Ho la fortuna di coltivare circa mezzo ettaro di un vigneto trentenne, vitato a Pignola Valtellinese. Vitigno che, nel mio territorio, raggiunge una piena maturazione a inizio ottobre, e che mostra una vigoria nettamente inferiore a quella del Nebbiolo, rendendo meno fondamentale la defogliazione estiva”. Come mai avete deciso di impiegare la Pignola per un blanc de noirs metodo classico: “Per ottenere la base spumante del mio Extra Brut La Perla vendemmiamo verso metà settembre, così da avere un tenore alto di acidità e un contenuto alcol potenziale.
Il fatto di raccogliere prima della maturazione ottimale agevola le operazioni di raccolta: la Pignola ha grappolo compatto e turgido, che risulta meno delicato se vendemmiato in anticipo. In cantina il mosto ottenuto dopo una pressatura soffice viene sottoposto alla tecnica dell’iperossidazione: le sue molecole ossidate, costituite da antociani e tannini, precipitano sul fondo del serbatoio tramite chiarifica, a beneficio di limpidezza e pulizia dello stesso. Alla base del concetto di queste tecnica v’è il fatto che tutto ciò che si ossida prima nel mosto, non ha più modo di ossidarsi poi nel vino, rendendolo più longevo in quanto più integro e stabile”.
Dal 1° agosto del 2017, in seno al disciplinare dell’Igt Alpi Retiche, è stata aggiunta la tipologia Spumante Metodo Classico, ove è previsto l’impiego dei vitigni autoctoni valtellinesi.
QUEL “SOFFICE MAGLIONE DI CACHEMIRE” CHIAMATO GROPPELLO GENTILE
Patria del Groppello Gentile è la sponda del Benaco Bresciano, dal quale si ricavano un apprezzato rosato e un elegante rosso. Mattia Vezzola, patron di Costaripa di Moniga del Garda (BS), lo descrive come un vitigno dagli acini bluastri dotati di buccia sottile e fragile, dal rachide molto corto che, a piena maturazione, induce a una compressione degli stessi, accentuando la già intrinseca delicatezza dell’epicarpo. Essendo inoltre relativamente produttivo, può in certe annate essere soggetto a una non completa maturazione. Per contro, “se allevato su terreni leggeri, ben soleggiati, ventilati e prodotto in quantità ideali, è capace di generare un nettare dagli aromi varietali di pepe nero e viola mammola, dal palato setoso, persistente e assai sapido”. La sua sostenuta acidità, inoltre, gli permette un ottimo potenziale in termini di longevità. Un vino che assume le caratteristiche di “un soffice maglione di cachemire messo dopo una bella doccia, che tiene caldo ma non pesa niente”.
Tra le etichette prodotte da Costaripa, a base Groppello, spicca il Valtènesi Doc Maim, che affina per 12 mesi in barrique per poi essere imbottigliato nella seconda primavera successiva alla vendemmia.
Dopo una maturazione in vetro di circa un anno ha luogo la commercializzazione.