Questo articolo poteva chiamarsi: “forse non tutti sanno che…”. E sì, perché se molti conoscono il pur raro Canaiolo Nero, pochi sono coscienti di un certo Canaiolo Bianco. Se tutti parlano di Vermentino, quanti sanno che dell’esistenza di un Vermentino Nero? Per non parlare di cultivar letteralmente strappate all’estinzione, come la pisana Colombana Bianca; il quasi inedito, chiantigiano Occhiorosso; il rarissimo e pure chiantigiano Mammolo. E poi la più settentrionale Pollera Nera, e il Colorino, oggi non più solo uva “da colore”.
La Toscana, possiamo dirlo, è un paradiso di biodiversità. Forse in nessun’altra regione è possibile riscontrare una messe di così tante varietà, alcune semi sconosciute e al limite dell’estinzione, altre coraggiosamente rilanciate dopo accurati studi ampelografici anche in purezza. Spesso si tratta di vitigni strettamente legati alla regione, o anche a un più specifico distretto vinicolo, e praticamente introvabili altrove. Qui il senso di cultivar autoctona assume dunque un significato assolutamente letterale.
Canaiolo Bianco: rarissimo, raffinato e “rieslingheggiante”
Le prime documentazioni della sua presenza in Toscana risalgono al Gallesio (1817). Oggi la sua diffusione è assai limitata, praticamente alle provincie di Firenze, Prato, Arezzo e Pisa, su di un’area di poco superiore ai 100 ettari complessivi.
Ne prevedono l’impiego la Doc Barco Reale di Carmignano e Bianco della Valdinievole. Il grappolo è compatto e di media grandezza, piramidale, dagli acini piccoli dotati di spessa e pruinosa buccia; lo si vendemmia nelle prime due decadi di settembre.
Rarissima la sua vinificazione in purezza. Tra i pochi che vi si sono cimentati figura l’Azienda Vinicola Galiga dei fratelli Grati di Rufina (Firenze). “Il nostro Toscana Igt Bianco Canaiolo è frutto di una vigna a 400 m slm, esposta a sud sud-ovest, in un contesto microclimatico ventilato e dotato di buona escursione termica.
Un aerale perfetto per il Canaiolo e per il Sangiovese”, così patron Gualberto Grati. “Lo vendemmiamo tardivamente, fine settembre-inizio ottobre.
Dopo la diraspatura ha luogo una criomacerazione di 18-24 ore. La vinificazione avviene parte in acciaio e parte in legno, a 15 °C. Poi assembliamo il tutto”.
Il prodotto rimane poi a lungo sulle proprie fecce, dando vita a un vino dalle interessanti potenzialità di invecchiamento.
Nettare profumato di fiori e frutta, dotato di struttura e sapidità, con gli anni sviluppa interessanti note terziarie di pietra focaia e idrocarburi.
Canaiolo Nero: la novità sta nella sua vinificazione in purezza
Già citato nel 1303 dal De Crescenzi, la storia di questo vitigno è molto antica. Il suo nome pare derivare dal fatto che l’invaiatura cade nei dies caniculares, storicamente compresi tra il 24 luglio e il 24 agosto; anche se taluni pensano sia originato dal suo caratteristico gusto amaricante dai ricordi di rosa canina.
Dotato di grappolo mediamente grande, tozzo e spargolo al contempo, con acini dalla buccia consistente, pruinosa, blu-violacea, matura in genere a fine settembre.
Diffuso soprattutto in Toscana, la sua rarità non sta tanto nel fatto di avere una limitata produzione, ma soprattutto è dovuta alla pratica secolare di vinificarlo come vitigno di supporto ad altre cultivar, mentre da alcuni anni un piccolo numero di produttori si sta adoperando per la sua vinificazione in purezza, con risultati a tratti anche ottimi.
Tra questi spicca il concentrato e ricco Toscana Igt Canaiolo di Bibi Graetz, di Fiesole (Firenze). Lo si ottiene da vigne di oltre 60 anni di età, allevate a Guyot su terreni ricchi di scheletro, con presenza di argille e galestro, ubicate tra Vincigliata, Fiesole, Rufina, Greve in Chianti, Panzano in Chianti.
La vinificazione si svolte in barrique aperte, con numerose follature, a cui segue un affinamento sempre in piccole botti di 18 mesi; la maturazione finale si svolge in bottiglia per 12 mesi.
Colombana Bianca: la sua culla è il Pisano
Usata anche come uva da tavola e per l’appassimento, è sinonimo della più conosciuta Verdea, originaria della Toscana e poi diffusasi diffusa in Emilia e Lombardia. Sua storica culla è il Pisano. Ha grappolo medio, conico-piramidale, tozzo ma poco compatto; l’acino ha buccia pruinosa e consistente. Di produzione abbondante, predilige potature lunghe ma non troppo cariche di gemme, per evitare rese eccessive.
La si vendemmia nella prima metà di settembre. In prossimità di Terricciola, tra Pisa e Volterra, acquistata nel 1997 da Giuseppe Cantoni, Fattoria di Fibbiano è considerata custode della Colombana Bianca. “La ricerca – sottolinea Nicola, enologo e figlio di Giuseppe – per noi è fondamentale.
Acquistando i terreni della nostra azienda abbiamo trovato varie testimonianze di una storia antica, come una vigna di Sangiovese ultracentenaria.
Nella tenuta ci siamo poi imbattuti nella Colombana, che abbiamo da subito coccolato”. Una passione, quella per le bacche indigene, e segnatamente per la Colombana Bianca, che ha condotto alla nascita del Toscana Igt Bianco Fonte delle Donne, blend di Colombana e Vermentino; da vigne poste su suoli ricchi di scheletro marino, con rese di soli 70 q/ha.
Dopo la pressatura soffice, il mosto subisce una criomacerazione con ghiaccio secco in regime di iperriduzione; dopo 24 ore ha luogo una lunga fermentazione a bassa temperatura di 30 giorni, a cui segue un affinamento in cemento di 6 mesi e una maturazione in vetro di altri 6 mesi.
Oggi il Colorino non è più solo un “colorante”
Toscano sino al midollo, frutto della domesticazione di viti selvatiche avvenuta secoli fa, il nome rimanda al suo potere colorante, sfruttato per dare forza cromatica al Sangiovese. I suoi acini sono piccoli, con buccia spessa e blu-nerastra. Impiegato in assemblaggio per la produzione di molti vini, soprattutto nella parte settentrionale e centrale della regine, Chianti compreso, da qualche anno alcuni produttori (pochi, invero) hanno scelto la strada della sua vinificazione in purezza.
“Il nostro Toscana Igt Colorino – racconta patron Lorenzo Ciappi di Casa alle Vacche (San Gimignano – Siena) è nato ormai quasi 10 anni fa dall’idea di valorizzare questo magnifico e capriccioso vitigno. Prima lo utilizzavamo solo per arricchire il nostro Chianti Colli Senesi; ma le sue uve, pur trovandosi nello stesso vigneto del Sangiovese impiegato per il Chianti, sono assolutamente riconoscibili, pertanto non è stato difficile isolarle per poi vinificarle da sole”. La vinificazione avviene in acciaio a temperatura controllata.
“Presentando questo vitigno problemi di riduzione, ricorriamo a frequenti rimontaggi e micro ossigenazioni”. Dopo la svinatura il vino lo si travasa in vasche di cemento, dove affina per 5 mesi. Due mesi in bottiglia ne completano la maturazione. Il nettare si presenta molto carico, dall’aroma fragrante, fruttato e floreale, dal gusto asciutto, molto morbido e avvolgente, non freschissimo di acidità ma brioso in termini tannici. “Un vino in cui crediamo molto e dal notevole potenziale”.
La Mammolo è a rischio: si impedisca la perdita dei suoi effluvi di violetta!
Si tratta di una varietà presente esclusivamente in Toscana, tanto che i primi ampelografi che l’hanno descritta, nel XVII secolo, erano tutti nativi della regione. Nell’800 vengono descritti diversi presunti biotipo di Mammolo, anche se pare attendibile ve ne siano soltanto due: il Mammolo Nero e il Mammolone di Lucca.
Nessun dubbio, una tantum, sull’etimologia del suo nome, che origina dai profumi di viola mammola che sprigionano i vini ottenuti da questa cultivar. Pur previsto il suo impiego in diverse prestigiose Doc e Docg, tra cui il Vino Nobile di Montepulciano, purtroppo non restano che una manciata di ettari vitati a Mammolo. Dotato di un acino decisamente grande, dalla buccia violaceo-rossastra, lo si vendemmia nell’ultima decade di settembre. Tra i pochissimi produttori che lo impiegano in purezza, da citare Villa Calcinaia di Greve in Chianti (Firenze) dei Conti Capponi.
Il loro rarissimo Colli della Toscana Centrale Igt Mammolo origina da vigne a 280 m slm, dimoranti su suoli franco-sabbioso-argillosi più a valle, e meno profondi, più limosi, ricchi di galestro più in alto. La densità dei ceppi è di 6.000/ha, allevati a Guyot.
A piena maturazione – fine settembre, inizio ottobre – le uve vengono vendemmiate, pigiate e il mosto fatto fermentare in tonneau aperti, con una macerazione di 15 giorni. Segue un affinamento in acciaio di 12 mesi. Rubino, dai tipici sentori di violetta, pur nella sua concentrazione e potenziale longevità, la sua eleganza lo rende una valida alternativa ai bianchi o rosati estivi.
Occhiorosso: rarità scoperta per caso nel cuore del Chianti
Il professor Roberto Bandinelli, dell’Università degli Studi di Firenze, ha scoperto questa varietà parlando con Nunziatina Grassi, un’ottantacinquenne che lo ha portato in giro per le sue vigne di Greve, mostrandogli per la prima volta l’Occhiorosso.
Questo vitigno è caratterizzato da un gambo che ha una forma sinuosa e una superficie come di carta vetrata, davvero molto particolare. I grappoli sono medio-piccoli e compatti, gli acini sono piccoli, dalla buccia spessa e resistente. Successivamente lo stesso Bandinelli, con l’enologo Federico Staderini e Sebastiano Capponi, patron di Villa Calcinaia in Greve in Chianti (Firenze), hanno lavorato su questa pressoché inedita cultivar (non ancora registrata ufficialmente), producendo – al termine di una serie di microvinificazioni – un interessantissimo monovarietale, il Colli della Toscana Centrale Igt Rosso Occhiorosso. Il relativo vigneto è posto su terrazze, potato a Casarsa, impiantato del 2005, con una densità di circa 5.000 ceppi/ha, per una resa di 60 quintali di uva/ha.
Le bacche, raccolte tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre, dopo una debita pressatura soffice, generano un mosto che viene fatto fermentare in tonneau aperti, con una macerazione che si protrae per 15 giorni a circa 30°C. L’affinamento ha luogo in barrique e dura 18 mesi. Ne scaturisce un vino di interessante longevità, dagli affascinanti profumi di frutti di bosco, note speziate e di tabacco, con curiose sfumature agrumate di cedro.
Pollera Nera: uva che impone delle scelte e oculati protocolli
La si coltiva da secoli in Lunigiana. Ben matura nella seconda decade di settembre, ha grappolo medio cilindrico-piramidale, con acini medio-grandi rosso tenue dai riflessi violacei. Di decisa vigoria, nelle annate generose s’impone una scelta: optare per una buona resa così da ottenere un vino fresco e immediato, oppure intervenire con decisi diradamenti per avere un nettare più complesso e concentrato. Critica la gestione della chioma: gli acini, avendo buccia sottile, nei mesi più caldi possono essere scottati dal sole; pertanto è bene non essere troppo severi nello sfoltire le parti verdi. Infine, la Pollera ha una dotazione medio-bassa di polifenoli e antociani, conducendo a vini non molto tannici e dai colori tenui. Concorre nella Doc Colli di Luni Rosso, nell’Igt Toscana o Val di Magra; assai di rado è vinificata in purezza. Tra i pochi casi, da citare il Toscana Igt Pollera, prodotto dal Monastero dei Frati Bianchi di Fivizzano (Massa-Carrara). Così patron Giorgio Tazzara: “Le uve provengono da vigne a 400 m slm, esposte a sud-est su suoli di galestro-alberese, con una resa inferiore ai 60 quintali. Dopo la vendemmia di metà settembre, vinifichiamo il mosto in acciaio con una macerazione di 15 giorni a 28°C e frequenti rimontaggi per estrarre antociani e polifenoli; l’affinamento avviene in fusti di rovere per 12 mesi, per concludersi con una maturazione in vetro di 6 mesi”. Il vino offre profumi che vanno dalla marasca alla confettura di piccoli frutti, con più freschi sentori balsamico-minerali; il sorso è intenso e fresco, la trama tannica è vellutata, per un finale gradevolmente morbido.
Vermentino Nero: uva “pantofolaia” che non ha mai varcato la Lunigiana
Come per tanti altri vitigni, anche le origini del Vermentino Nero sono avvolte dal mistero, sebbene pare certo che il suo genius loci dimori in Lunigiana. A rischio di estinzione nel secondo dopoguerra, è stato riscoperto a fine anni ‘80 da Podere Scurtarola di Massa, che lo ha rilanciato, anche in purezza. La sua diffusione è limitata all’alta Toscana, rientrando nelle Doc Candia dei Colli Apuani e Colline Lucchesi. Vitigno complicato, impone una scrupolosa potatura invernale. Presenta un grappolo grande, piramidale, compatto. La buccia dei grossi acini è pruinosa e bluastra. Matura tardivamente, nella prima metà di ottobre. Spiega Pierpaolo Lorieri, patron di Scurtarola: “Oggi parlare di Vermentino Nero non è difficile, ma non era così nel 1987, quando fui indotto a identificarlo, disperso tra altri 40 vitigni nei diversi vigneti del mio territorio. Per poi scoprire fra l’altro essere una varietà inesistente al di fuori della provincia di Massa-Carrara e poco oltre, dedicando 15 anni tra studi del DNA, osservazione della pianta e suo rapporto col rispettivo terroir. Le colline dove vive questa cultivar sono arenarie calcitiche dell’oligocene; non ama viceversa l’argilla e i terreni troppo fertili, e necessita di ‘soffrire’ un po’ per dare il meglio. Ogni vite è riprodotta da noi, selezionando e ripiantando ogni parcella singolarmente, e sono ancora alla ricerca del portainnesto più adatto. Il mio Toscana Igt Vermentino Nero Vernero lo ottengo dopo una lunga macerazione a contatto con le bucce (oltre 20 giorni); l’affinamento – vista la sua ricchezza in polifenoli e acidità – si protrae per 24 mesi in barrique e tonneau, a cui segue una maturazione in bottiglia di altri due anni, prima della commercializzazione. Per un nettare ricco, concentrato e longevo”. bottiglia di altri due anni, prima della commercializzazione. Per un nettare ricco, concentrato e longevo”.
Dall’antica Etruria vitigni strappati all’oblio
Abrostine: dopo la sua domesticazione s’è fatta nobile
Federico Staderini, agronomo casentino da sempre intrigato dalla riscoperta degli antichi vitigni autoctoni della sua provincia, dopo aver realizzato il sogno – nel 2000 – di piantare del Pinot Nero nel suo Podere Santa Felicita a Pratovecchio (Arezzo), sfruttandone le forti escursioni termiche, decide di recuperare un’antica varietà etrusca, nata dalla domesticazione della vitis silvestris: l’Abrostine. Sulle pendici troppo assolate della sua tenuta, l’uva borgognona non avrebbe dato risultati interessanti, mentre quest’ultima si bea di una esposizione al sole relativamente diretta. L’approccio agronomico è di impronta biodinamica: ceppi trattati con decotti naturali, allevati a Guyot semplice per una produzione di soli 300 g/uva/pianta, vendemmia (a inizio novembre) e diraspapigiatura effettuate manualmente, fermentazione con lieviti indigeni. L’Abrostine va pressata dolcemente, per estrarre dai suoi minuti acini solo gli elementi più nobili. Dopo una macerazione di 20 giorni, il vino esige lunga elevazione in barrique (24 mesi). Così nasce il Toscana Igt Rosso Sempremai: nuances decise e brillanti, bouquet piccante e speziato con tocchi gradevolmente selvatici, sorso beverino ma vigoroso, dove i sottili tannini sono al contempo incisivi, supportati da spiccata freschezza acido-sapida. “Un approccio totalmente scientifico non tiene conto dello ‘spirito’; ovunque ci sia vita, la mera scienza ha dei limiti”, questo il pensiero di Staderini.
Molto personale da solista, ma pure ottima gregaria del Sangiovese
Tra le aziende più attive per il recupero delle antiche varietà chiantigiane e aretine prossime all’estinzione, da citare quella di Roberto Droandi di Montevarchi (Arezzo), con tenute anche nel Chianti Classico. Molti i vitigni riscoperti da questa realtà, fra cui la rara Barsaglina. “Su questa cultivar abbiamo accumulato esperienza e ottenuto notevoli risultati. Si tratta – sottolinea Droandi – di una varietà generosa, piuttosto vigorosa, da tenere a bada sia quanto a produttività sia a livello di apparato fogliare. Appena più precoce del Sangiovese, resiste alle malattie fungine, dimostrandosi qualitativa anche nelle annate negative come la 2014, quando abbiamo prodotto un ottimo Chianti proprio grazie al contributo della Bersaglina (e della Foglia Tonda), a fronte della débacle di gran parte del Sangiovese”. Il Toscana Igt Barsaglina che ne deriva affina 3 mesi in cemento, 24 mesi in barrique e 6 mesi in vetro; pur presentando un grado alcolico inferiore a quello del Sangiovese dell’1,5% vol., è interessante per la sua spiccata personalità: carico di colore, ricco di polifenoli al gusto, dai profumi vinosi, fruttati, ma al contempo eleganti, vagamente vegetali e balsamici. Conclude Droandi: “Pur meno corposo di altri autoctoni da noi prodotti in purezza, quali Pugnitello e Foglia Tonda, è un vino di rara complessità aromatica e gustativa, e ritengo tale varietà altamente migliorativa nel blend del nostro Chianti”.
Ciliegiolo: diffuso ma solo oggi valorizzato
Il Ciliegiolo era molto presente in Maremma e i vecchi vigneti lo vedevano spesso protagonista.
Il suo rilancio lo si deve fra gli altri a Edoardo Ventimiglia e Carla Benini, titolari dell’azienda Sassotondo di Sorano (Grosseto): “Lo abbiamo trovato nel 1991 – spiega Ventimiglia – in un vigneto del 1960 di 3 ha di fronte a Pitigliano, chiamato San Lorenzo: in quegli anni si pensava fosse un vitigno di scarsa qualità; lo si chiamava ‘dolciume’, in riferimento al gradevole sapore dell’uva in contrapposizione a una supposta pessima qualità del relativo vino. Il problema stava nelle sue rese alte e incontrollate, che in effetti portavano a risultati deludenti, sia sanitari sia organolettici”. Ma il patron di Sassotondo non ci sta, crede nel potenziale del Ciliegiolo, che fra l’altro a differenza del Sangiovese non patisce caldo e siccità, e segue i consigli dell’enologo Attilio Pagli, decidendo di non estirpare vigna San Lorenzo per andare a gestirla adeguatamente a livello di potature e rese, impiegandola anche come base per delle selezioni massali.
Nasce così, nel 1997, il Maremma Toscana Doc Ciliegiolo San Lorenzo. Affinato 18-30 mesi in botti da 10 hl e 12 mesi in vetro, offre i tipici profumi infusi dai suoli tufacei di Pitigliano: pepe bianco, chiodi di garofano, cassis, terriccio e grafite, arricchiti da note di incenso orientale dovute al legno; il palato ha marcata ma fine trama tannica, molto armonico e persistente.
Da Cenerentola a futuro Principe Azzurro
Diffuso nel sud della Toscana da illo tempore, dal 1970 il Foglia Tonda è iscritto al Registro Nazionale delle Varietà di Vite, omologato nel 1978 dall’Università di Firenze. Così chiamato per la sua foglia quasi circolare, ha grappoli generosi, compatti e piramidali, con acini dalla buccia bluastro-pruinosa. Molto fertile, tende a produrre in eccesso; resiste però a peronospora, botrite e in parte all’oidio. Un po’ più tardivo del Sangiovese, patisce la siccità.
Dalla sua vinificazione si ottengono nettari dai colori intensi e proni all’invecchiamento, che al naso sanno di viola, piccoli frutti scuri e prugne secche e in bocca sono pieni e corposi. Nel 2000 Donatella Cinelli Colombini, affascinata da quest’uva, decise di impiantarne 400 marze innestate su viti adulte del cru Boschetto, nella sua tenuta di Fattoria del Colle di Trequanda (Siena).
L’esperimento offrì subito buoni risultati, pur se in seguito fu necessario apprendere le tecniche per ridurre la fertilità primaverile di quest’uva; suo maggior problema. In cantina sono state fatte numerose sperimentazioni, così da capirne l’attitudine, sino a giungere alla “ricetta” finale: più potente ma meno elegante del Sangiovese, lo si vinifica e affina separatamente in tonneau, per poi assemblarlo con quest’ultimo; insieme formano un vino armonico e classico.
Nasce così nel 2001 l’Orcia Doc Cenerentola, che dall’annata 2010 sta cominciando a riscuotere un successo clamoroso.
Una promessa (per ora) non mantenuta
Molto tardiva in tutte le fasi fenologiche, con media vigoria e buona, costante capacità produttiva, tollera bene le muffe e non presenta particolari sensibilità a nessuna patologia. Ha grappolo corto, conico e compatto, con acini dalla buccia scura. Assai raro, è sporadicamente presente nell’Aretino.
Il primo e finora unico produttore che ne sta sperimentando un impiego “consapevole” è il già citato Roberto Droandi, che però non pare esserne entusiasta. “Per quanto concerne la Lacrima del Valdarno, appena iscritta al Registro Nazionale col ridicolo anagramma di Gralima (per evitare improbabili confusioni con le altre Lacrima), abbiamo ancora scarsa, non incoraggiante esperienza. Dopo averla più volte microvinificata anni fa, mi era parsa interessante, trovandovi un carattere ruvidamente toscano: notevole acidità, piacevolezza gusto-olfattiva, naso fruttato e sorso tannico. Pensavo almeno di poterla usarla in assemblaggio come varietà migliorativa”.
Ma dopo l’iniziale ottimismo, vinificata in modo più sistematico in purezza ha mostrato diversi limiti organolettici, soprattutto un’eccessiva spigolosità acido-tannica dovuta alla sua difficoltà a maturare in annate men che ottime. Pur avendola sovrainnestata su viti di oltre dieci anni, le sue caratteristiche qualitative non sono ancora ottimali. Per ora Droandi la impiegherà in uvaggio, in attesa di vedere il suo comportamento quando le viti saranno ulteriormente più vecchie.
Nocchianello Nero: un vulcano di spezie
Il già citato Edoardo Ventimiglia, con Paolo Storchi del Crea di Arezzo, è il fautore della riscoperta del Nocchianello, che racchiude diverse sottovarietà sia bianche sia rosse, sicuramente autoctono del Pitiglianese.
“Ci avevano detto – racconta Ventimiglia – di questo antico vitigno-popolazione, fra l’altro ritrovato nella nostra vecchia vigna di San Lorenzo a Pitigliano. Nel 2009 il Crea di Arezzo ci ha fornito alcune marze che abbiamo innestato assieme a quelle di San Lorenzo: in pochi anni siamo arrivati a 260 piante di Nocchianello Nero e altrettante di Bianco.
Nel 2013 abbiamo avviato le prime microvinificazioni e, grazie al supporto scientifico del Crea, nell’ottobre 2017 il vitigno è stato inserito nel Registro Nazionale. La versione a bacca rossa ha vinacciolo grosso, buccia spessa, resiste alle malattie; maturando tardivamente, quando le temperature non son più torride, conserva aromi e acidità”.
Dopo le iniziali sperimentazioni, per ora a Sassotondo si vinifica solo il Nocchianello Nero (assai intrigante il 2015).
Ne scaturisce un vino dalla tipica struttura e speziatura dovuta ai suoli vulcanici pitiglianesi, dal buon contenuto tannico e discreta ma stabile presenza di antociani; rosso rubino limpido di media intensità, profuma di pepe bianco, noce moscata, cassis e un tocco selvatico; in bocca ha calibrata freschezza, texture tannica vellutata e buona persistenza fruttata.
Orpicchio come i panda: solo 2 ettari a lui dedicati
Emiliano Falsini, enologo di Donne Fittipaldi di Bolgheri, assieme alla famiglia Menarini Fittipaldi con il progetto “Lady F” ha inteso dare un contributo alla causa della biodiversità dei vitigni indigeni toscani. “Donne Fittipaldi – chiarisce Falsini – ha nel DNA la sfida e il desiderio di sperimentare, osare e valorizzare il territorio di Bolgheri attraverso anche l’utilizzo di varietà poco diffuse, come la bianca Orpicchio e la rossa Malbec”.
Orpicchio… Chi era costui? Coltivato un tempo nell’Aretino, per molto tempo a fatto perdere le sue tracce. Pur geneticamente vicino ad altre cultivar, quali Cortese, Moscato Giallo e Malvasia bianca, è in realtà un vitigno a sé stante: pertanto nel 2007 è stato inserito nel Registro Nazionale, in particolare nell’elenco delle varietà idonee alla coltivazione in Toscana. Oggi lo si può vitare ovunque in regione, ma di fatto attualmente solo 2 ha sono dedicati a questo rarissimo vitigno.
Il Toscana Igt Bianco Lady F 2015 è il primo Orpicchio in purezza ufficialmente commercializzato; dopo alcune sperimentazioni si è optato per una fermentazione parte in acciaio e parte in legno, con successivo assemblaggio.
In tal modo la frazione vinificata in acciaio apporta freschezza e bilancia la nota appena boisé che caratterizza quella frutto dei piccoli fusti. Il tutto per un vino dagli eleganti profumi di salvia, pera e pepe bianco; dal sorso fresco e quasi salino.
E fu amore al primo assaggio
Tenuta Tondaia è un’azienda di Civitella-Paganico (Grosseto) avviata dall›enologa Silvia Spinelli nel 2005; oggi la tenuta consta di 6,5 ha di vigneto, di cui 2 vitati a Pugnitello. La filosofia aziendale è quella di valorizzare le cultivar autoctone maggiormente legate al terroir della cantina.
Non è pertanto un caso se fra le etichette a listino spicca il Toscana Igt Pugnitello Più Tanto. La scelta di dedicarsi a questo vitigno di recente riscoperta è nata da un “amore al primo assaggio”.
“Prima di creare Tondaia – racconta Spinelli – ho lavorato alla Facoltà di Agraria di Firenze, dove ho avuto modo di seguire le sperimentazioni sul Pugnitello. Assaggiatolo, ne sono rimasta affascinata. Presa la decisione di mettermi in gioco come produttrice, ricordai quella degustazione, decidendo di puntare proprio su quell’ancora misconosciuta cultivar”. Nel 2006 l’enologa impianta il primo ettaro dedicato a questa varietà, vinificata per la prima volta nel 2010.
“Dopo 9 vendemmie posso dire di aver compiuto la scelta giusta, tanto che il Più Tanto sta diventando il nostro vino di punta e il più riconosciuto dalla critica”. La pianta madre del Pugnitello è stata recuperata nel 1981 non lontano da Tondaia; dal 2003 è tra i vitigni autorizzati. Di complessa gestione agronomica, è sensibile all’oidio, ma soprattutto ha una resa/ha di soli 45 q/uva. Ben resistendo alla siccità, è perfetto per la Maremma Toscana. Ne scaturisce un vino saturo di colore, dalle note di prugna e vegetali; in bocca ha buona struttura e la sua elevata acidità lo rende fresco e adatto a lungo invecchiamento.
[Questo articolo è tratto dal numero di maggio-giugno 2023 de La Madia Travelfood. Puoi acquistare una copia digitale nello sfoglia online oppure sottoscrivere un abbonamento per ricevere ogni due mesi la rivista cartacea]