Solo un maestro della vinificazione del Teroldego come Paolo Endrici – a cui si deve la produzione del celeberrimo Gran Masetto – avrebbe potuto ipotizzare la creazione di un rosè partendo da uve che nella notte dei tempi venivano raccolte, pigiate e spedite in tutta Italia per regalare un po’ di colore a vini mortarelli. C’è voluta però la quinta generazione della famiglia che dalla fine dell’Ottocento gestisce la cantina Endrizzi di San Michele all’Adige, nel cuore del Trentino, per concretizzare un progetto visionario come quello che ha aggiunto alla gamma dell’offerta dell’azienda di famiglia il nuovo Dalis. Dalis come Daniele e Lisa Maria, i due figli di Paolo Endrici che hanno trasformato i sogni del padre in una solida realtà. Da oggi esiste un rosato prodotto con uve Teroldego, quelle stesse che, lavorate in diverso modo, hanno fatto la fortuna dell’azienda trentina, oggi una delle più apprezzate nella produzione dell’autoctono per eccellenza, insieme al Marzemino, dell’ex terra asburgica. Le uve vengono raccolte dagli appezzamenti di Sorni e Faedo, nel cuore delle colline Avisiane fra i rinomati vigneti di Lavis, per poi essere immediatamente raffreddate a dieci gradi in cella, quindi vengono sottoposte a diraspatura e pigiatura soffici e fermentate in acciaio. Per dare vita al Dalis il Teroldego viene ingentilito con Sauvignon Blanc, lavorato secondo tradizione: profumi e gusti si sprigionano in gran quantità all’apertura, purché essa avvenga entro breve tempo dall’acquisto. Chi ci sente sambuco, chi pomodoro, chi lampone, dettagli parametrici che scompaiono davanti alla freschezza del gusto e all’originalità di un’operazione che fino a qualche anno fa sarebbe suonata oltraggiosa alle orecchie di qualsiasi vignaiolo trentino. E invece qualcosa si sta muovendo anche in una terra tradizionale come quella, in cui la rincorsa alla spumantizzazione ha spesso tralasciato lo studio delle varietà più consolidate. Da Endrizzi la nuova generazione ha osato là dove non si pensava ci si potesse spingere, tanto che Dalis non è solo il rosato del Teroldego, ma anche bianco (una cuvée di Nosiola, Chardonnay e Sauvignon Blanc) e rosso (ovviamente Teroldego più Petit Verdot, Merlot, Cabernet Sauvignon e Sangiovese), profumatissimi strappi ad una regola che rischiava di inchiodare la vinificazione trentina alla perpetuazione di gesti e procedure un po’ ingessati. «Il progetto Dalis – ha raccontato Andrea Cristofori, responsabile della comunicazione dell’azienda – è stato fortemente perseguito da Lisa Maria e Daniele Endrici per offrire a un pubblico giovane, disimpegnato ma comunque educato al buon bere, vini di fantasia provenienti però da uve trentine, dal giusto prezzo e dalla grafica accattivante». Senza tenere conto delle scelte politiche fatte negli ultimi anni dall’azienda, che ha abbracciato senza mezzi termini la causa dell’ecosostenibilità fin dai lontani anni Novanta: niente diserbanti, dunque, e uccelli e confusione sessuale contro i potenziali insetti dannosi, ma anche interramento dell’area produttiva e ottimizzazione delle procedure di conferimento, oggi assai meno impattanti di qualche decennio fa. Certo, i movimenti dei consumi sui mercati hanno sicuramente contribuito ad accelerare alcune decisioni significative: il tentativo di lanciarsi nel variegato mondo dei rosati non può non essere stato ispirato dai dati raccolti da parte dei massimi esponenti del mondo della statistica enologica, secondo i quali il consumo di vino rosato nel mondo è aumentato dall’inizio del secolo ad oggi di oltre il 30%. Per non parlare del boom registrato negli ultimi anni dai rosé francesi che nel quinquennio appena trascorso hanno aumentato le loro esportazioni verso gli Stati Uniti del 43%, anche se pure i rosati di casa nostra si sono battuti bene accumulando record di vendite su record di vendite, con percentuali tali da garantire nell’ultimo decennio un aumento di vendite da 3 a 114 milioni di euro. Numeri che la dicono lunga sulle potenzialità di un mercato che ancora pochi in Italia hanno provato a sfidare, se non aumentando le produzioni tradizionali. È vero che il mercato italiano fatica a reagire alla provocazione, limitando i consumi a livelli modesti se comparati a quelli dei principali competitor europei, ma nel mondo sta accadendo l’esatto contrario e l’aumento delle richieste si posiziona anno dopo anno su livelli a due cifre.
Per fortuna c’è anche chi, come la famiglia Endrici, ha voluto mettersi alla prova arricchendo l’offerta con un prodotto in grado di garantirsi, per prezzo e qualità, una posizione. Forse sarebbe auspicabile che anche qualche altro coraggioso vignaiolo osasse lanciare il guanto di sfida: la nostra penisola è ricca di vitigni in grado di poter dar vita a vini rosati dotati del quid necessario per posizionarsi su un mercato che oggi mostra di voler accogliere benevolmente qualsiasi cosa sia in grado di movimentarlo, purché qualitativamente irreprensibile. Il rosè, da moda estiva qual è ormai diventata, potrebbe consolidarsi in qualcosa di più e dare finalmente impulso alla nascita di quella quarta gamba, dopo rossi, bianchi e mossi, su cui il mondo del vino italiano potrebbe poggiare con maggiore equilibrio. I vitigni adatti al processo sono numerosissimi, per di più distribuiti in tutto lo Stivale: se c’è riuscito Endrici, a rendere rosa il rossissimo Teroldego, probabilmente qualche altro interessante esperimento potrebbe essere portato a termine in tempi utili per creare una massa critica in grado di insidiare su questo particolare versante la corazzata francese, che sui rosé è riuscita a costruire un fenomeno sempre più apprezzato. Da rosso a rosa, in fondo, il passo può essere davvero breve.