La Fondazione Gualtiero Marchesi introduce il certificato di autenticità per il celebre piatto, riaprendo la riflessione sul diritto d’autore per le ricette.
1981, l’anno del lancio del primo shuttle, dell’attentato al papa, di Reagan presidente degli Stati Uniti, di Lewis
che corre i 100 metri in 10 secondi netti, del matrimonio tra Carlo e Diana.
L’anno in cui progettai il riso, oro e zafferano.
Al di là della ricetta e della sorpresa di utilizzare l’oro, c’è il gesto meditato e casuale di sovrapporre un quadrato
a un cerchio. Qualcuno, a posteriori, ci ha visto addirittura la rappresentazione inconscia di un’antica cosmologia
orientale con la terra al centro, circondata dai diecimila esseri che presiedono alla trasformazione.
Non so, certo è che quelli erano anni più duri e più liberi. Gli ultimi totalmente ideologici e i primi che rimettevano
l’individuo al centro.
Riso, oro e zafferano è nato sia dalla piena consapevolezza dei propri mezzi sia dal piacere di osare.
Da allora, la ricetta che è stata eseguita centomila volte; nei ristoranti che Gualtiero Marchesi in Italia e all’estero
sono stati serviti ad oggi centomila “riso, oro e zafferano”.
Un’enormità.
Mi sono affezionato a questo piatto, l’ho anche riprodotto sulla spillina che porto al bavero e più lo guardo è più
mi rendo conto che non ha bisogno di spiegazioni. È così puro, elegante, autosufficiente, che potrebbe esistere
da sempre: un piccolo quadrato posato dentro un cerchio, reso attraverso il perfetto accordo cromatico
e il contrasto tra la superficie compatta del riso allo zafferano e la foglia d’oro, increspata dal calore.
Giallo su giallo, giocando su due tonalità, una più opaca e l’altra traslucida. Composizione e materia, tutto facile,
calibrato, addirittura ovvio.
Intanto, però, il risotto è eseguito alla rovescia: invece di fare il fondo di cipolla, vino bianco e poi tostare il riso
assieme come avviene nel procedimento tradizionale, faccio cuocere la cipolla in un po’ di burro e quando è
ben cotta vi spruzzo del vino bianco. Lascio evaporare, la conservo a parte con il liquido che si è formato e la filtro.
Questo mi serve per preparare il burro acido con cui mantecherò il riso, aggiungendo del parmigiano e lasciando
riposare per due o tre minuti, in modo che tutto si distenda dopo aver subito la violenza della cottura.
A questo punto, si allarga sul piatto e si lascia cadere sopra la foglia d’oro, senza badare troppo che sia centrata
al millimetro, anzi meglio, molto meglio, che rimanga leggermente asimmetrica, inserendo quel movimento di lato
che è la ragione suprema dell’arte giapponese.
C’è chi lo ha mangiato con voracità, pensando all’oro sul piatto, chi lo ha centellinato a scopo terapeutico – pare,
infatti, che l’oro giovi ai reumatismi – e chi l’ha guardato a lungo, senza sentire il bisogno di fotografarlo, catturato
dalle forme elementari del quadrato e del cerchio, forse anche un po’ in soggezione per la fascia nera del piatto che
lo incornicia.
La primissima versione di riso, oro e zafferano utilizzava un piatto bianco ed era incompleta.
Così, invece, è perfetta come un sigillo, una medaglia, un quadro.
A dirla tutta, mancherebbe solo di brevettarla!
Gualtiero Marchesi – dicembre 2017
100.000 riso, oro e zafferano dal 1981 al 2017
Da oggi chi degusterà questo piatto nel Ristorante Gualtiero Marchesi in piazza della Scala a Milano,
riceverà un certificato di autenticità, numerato, ovviamente, dal 100.001 in su.