La sua grande storia, la sua grande gastronomia
Trieste è diversa dalle altre città. E’ differente l’approccio. Il modo di entrarci dentro. Una progressione lenta, in punta di piedi, con lo stupore che rivela ad ogni angolo l’antica superba centralità. Con i palazzi, ognuno con uno stile proprio, che incutono meraviglia. E le chiese di sette riti diversi, inappellabili bagliori di una religiosità che tiene insieme i serbi, gli ortodossi, i greci, i croati, gli anglicani, gli ebrei, i cattolici. Caselle di un intrigante percorso dello spirito; seduzioni d’oriente in bilico fra l’ Adriatico e il Danubio. Trieste è la promessa di universi lontani che ruotano attorno ad un punto acceso sul mare. Contaminazioni inaspettate. Lampi che si perdono nella storia, ma che non hanno mai smesso di illuminare le pietre. La grandeur imperiale mischiata alla ricostruzione di un presente che è testimonianza viva di un passato che è lì a raccontarsi orgoglioso fra i bar viennesi, la gastronomia serba, le pasticcerie ungheresi, i piatti balcanici, croati. Come se il tempo immobile avesse affidato al gusto e al dehors della città il compito di svelare, nascondendo qua e là i suoi più profondi segreti, l’ostinata prevalenza dei sapori. Che vanno cercati, raggiunti, interpretati, inseriti nel contesto che li anima, che li ha resi immortali. Una geografia apparentata da origini comuni che sono sentimenti, ma anche ricette, tavole imbandite, accoglienza, codici. Rintracciare le radici diventa così un gioco da ragazzi: serba e ungherese la cucina di terra, istriana e dalmata quella di mare. La storia che, come una distrazione, affida al gusto la missione di prendersi cura delle piaghe ancora infette di una lunga teoria di confini irrisolti e di atavici irredentismi. La grande storia e la grande gastronomia, un binomio assoluto costruito giorno dopo giorno col sudore orgoglioso di chi sa di appartenere ad una civiltà unica; un desiderio mai sopito di identità che è duro come le rocce che accelerano il paesaggio in contorti declivi che si placano verso silenziosi fiumi o mari irrequieti.
I caffè storici
Molti di questi Caffè vennero aperti a Trieste nella seconda metà del Settecento, probabilmente seguendo l’esempio dei locali veneziani alla moda, ma assumendo immediatamente un’inconfondibile impronta viennese negli arredi e nella pasticceria; oggi con l’aggiunta di qualche influenza slovena: torta sacher, strudel, krapfen, putitza (un dolce carsolino di pasta lievitata simile alla gubana) e il presnitz (uno strudel ripieno di noci, mandorle, pinoli, fichi, prugne, albicocche, uvetta). Partire da qui per scoprire la città è il modo migliore per apprezzarne il coraggio e la lentezza.
Il coraggio di resistere ai cambiamenti, innanzitutto. Basta entrare in una delle vecchie drogherie del rione Riborgo per accorgersi che del Novecento non si è buttato via nulla: ogni cosa è rimasta uguale, le stesse scaffalature, gli stessi sacchi di juta coi legumi, le enormi botti di vino; gli stessi odori: legno, spezie, sapone. Oppure certi antiquari che somigliano più ai trovarobe ottocenteschi che al Christie’s di Londra. Coi santini distribuiti negli anni venti dai parroci che benedicevano le case, e gli introvabili mortai di legno intagliati a mano.
E poi la lentezza.
La tradizione dei buffet
Roberto Ubaldini (qui sopra) non ha nemmeno 30 anni, la sua storia è il paradigma della nouvelle vague triestina. Ha cominciato a lavorare a sedici anni: di giorno all’alberghiero, la sera dietro i fornelli, e d’estate le stagioni a Cortina, Porto Cervo, Madonna di Campiglio.
Ego è il suo primo ristorante, apertura 2012. “Utilizzo solo tre ingredienti, una scommessa col territorio ma anche una sfida a me stesso. La mia idea è di sorprendere i commensali senza stupirli; lo stupore confonde le idee, preferisco invece che sia il piatto a convincere il cliente che la storia che propongo è possibile, si può fare perché è giusta”.
Sui tavoli, affacciati su una cucina a vista ultramoderna, arrivano piatti come la piovra nostrana cotta a vapore e poi arrostita in padella e servita su crema di bufala e olive, il risotto di funghi porcini con salsa di gamberi rossi, scampi e tartare di gamberi, la grigliata di pesce e crostacei in cartoccio.
Non si può visitare Trieste senza confrontarsi con la sua anima imperiale. La cartolina è il castello Miramare, quindici minuti di bus dalla stazione, un diamante sulla punta del promontorio di Grignano. Costruito tra il 1856 e il 1860 per volere dell’arciduca Massimiliano d’Austria, poi imperatore del Messico, il castello di gusto romantico, svetta su un parco di oltre 22 ettari, un giardino all’inglese e all’italiana, ricco di piante rare, sculture e laghetti, che scende con ampi gradoni verso il mare.
La dimora è stato lo sfondo dell’amore tragico fra l’imperatore (ucciso dai repubblicani a Queretaro) e la bella Carlotta. Tra il 1869 e il 1896 sono testimoniati almeno quattordici soggiorni di Sissi, l’imperatrice Elisabetta d’Austria consorte di Francesco Giuseppe. Bien- vivre che non si è perso del tutto, anzi resiste nelle pasticcerie e nelle sala da tè della città. Anche sotto forma di rivisitazione.
L’ultimo nato è Ginger, il punto di incontro fra due grandi passioni: le foglie di tè di Chiara Beccari, le torte e i pasticcini di Elena Giuffrida. Sessanta diversi tipi di tè da abbinare ad altrettanti cupcakes: cioccolato fondente e banana, lamponi e cioccolato bianco, fragola e vaniglia, carote e cannella, arancia e cioccolato.
Il filo nobile che tesse i diversi tagli gastronomici della città non ha però nulla di elitario; in comune con le corone e i galloni ha semmai l’ereditarietà che qui è portatrice di fatica e di posizioni conquistate con il sudore e la dignità del lavoro.
L’ultimo di questi monarchi del popolo è Mario Suban. Fu Giovanni Suban, grazie alla vincita di cinque fortunati numeri giocati sulla ruota di Vienna nel 1865, che pose la prima pietra di quella che oggi si chiama Antica Trattoria Suban (foto a sinistra).
Mario a 80 anni suonati gira ancora fra i tavoli a dispensare consigli e sorrisi. ”Qualcuno mi critica perché qui facciamo sempre le stesse cose da più di un secolo, ma la memoria non può essere tradita. La storia è nei sapori e io sono orgoglioso di custodirla e di trasmetterla ancora oggi ai miei clienti”. La cucina di casa Suban è la ricerca degli ingredienti giusti. Un ritorno alla terra, ai contadini, agli allevatori, per scoprire quelli migliori. I maialini, arrivano dalla Slovenia, dove gli animali sono tenuti allo stato brado. Le galline sono certificate da mangimi naturali e razzolano tutto il giorno nell’aia. L’orto di famiglia è rigorosamente biologico. “Noi ci siamo sempre occupati della cucina di campagna, il pesce non è mai stato nelle nostre corde” spiegano Federica e Giovanna, quinta generazione dei Suban. “La fattoria prima di tutto, senza escludere però la selvaggina, i cinghiali, i cervi. E qualche riscoperta : la calandraca (uno stufato di carne e patate), le interiora, la trippa. La jota la serviamo dentro una tazzina di caffè per provare la disponibilità dei nostri ospiti a viaggiare nella nostra storia”. Fra i piatti di sempre, imperdibili sono la costina di maiale al forno, il prosciutto in crosta di pane con rafano grattugiato e senape, la palacinka al basilico, i fusi fatti in casa con lo spezzatino di gallina, lo stinco di maiale al forno, la Rigojanci (torta ungherese al cioccolato), lo gnocco di susine, lo strudel di mele.
Il respiro della serenissima a muggia
Facciamo l’ultima tappa ad Opicina. Un tram del 1902 ci porta sul Carso a due passi dalla Slovenia, lungo una funicolare a cremagliera che si inerpica su per mulattiere e scorci da mozzare il respiro. In basso il Golfo di Trieste. All’orizzonte le terre d’oriente e quelle di occidente. Sovrastati dalle montagne che solcano le nuvole. A strapiombo sull’infinito.