Troppo facile. Troppo facile abbinare il nome della ridente regione francese del Beaujolais al suo vino più famoso, quel Nouveau che ogni autunno inaugura la stagione (mondiale) dei novelli. La zona a nord di Lione, che ricorda tanto la campagna dell’Italia centrale, ha davvero molte frecce al suo arco. Per conquistare un viaggiatore in cerca di sapori e profumi da disegnare nella propria memoria.
Due fiumi, Rodano e Saona, che si arrampicano fra le colline verdi e gialle di fiori primaverili e ricoperte di viti basse che sfiorano il terreno per non perdere neppure una stilla di calore del pallido sole. Il vento freddo che viene da sud dalle Alpi cancella ogni traccia di umidità anche nei giorni freddi e piovosi. La primavera arriva presto anche se la neve è lì, sui monti più alti a screziare di bianco l’ordine dei campi ben coltivati e dei boschi di sempreverdi.
Il vino è famoso più di quello che dovrebbe, forse. Perché tutto è gamay, dodici cru che in pochi casi fanno sognare gli appassionati: Brouilly, Chénas, Chiroubles, Còte de Brouilly, Fleurie, Juliénas, Morgon, Moulin à Vent, Régnié e Saint Amour. Solo Morgon e Moulin à Vent si elevano sulla media, rossi da invecchiamento che possono fare l’occhiolino anche in qualche carta dei vini di qualità.
Pietre dorate e salsicce di vitello
Quando si esce dal caos del traffico dell’ora di punta di Lione e si segue l’autoroute verso nord si vedono tante cose. Una periferia ordinata con i giganteschi centri Leclerc, i manieri alteri in cima ai colli. I piccoli paesi che nelle ore in cui la luce diventa buio o il buio diventa luce sembrano d’oro. Pierres dorées, le chiamano qua. Sono le pietre che da sempre i contadini spaccano e usano per costruire i loro edifici. Sono di colore ocra con minerali che al tramonto luccicano e costringono i turisti a baciare le turiste. Romanticismi a parte, l’effetto è molto suggestivo. Sembra di essere in un film di Rohmer. Il più bello sembra essere Oingt, un piccolo centro medievale che è appena stato inserito nel novero de “i più bei villaggi di Francia”, riconoscimento concesso dal governo transalpino.
Ma la vista non è il solo senso a rimanere colpito. La zona brulica di specialità gastronomiche goduriose, che luccicano come le pietre dorate delle case. Forse la leccornia più famosa è l’andouillette, una salsiccia preparata con lo stomaco di vitello. Superato un primo impatto difficile con un sapore molto differente (e con il concetto di stomaco di vitello) da quello che il palato si aspetta, sono piuttosto gustose.
L’altra tipicità da assaggiare, se si capita da queste parti, è il cabrion: il formaggio di capra in tutte le sue declinazioni qui tocca vertici assoluti. E poi c’è la grappillette, una sorta di marmellata d’uva, che proviene dai monti del Tarare. E ancora mieli pregiati, cochonnailles come il Jesus e grattons: i maiali sono vittime predestinate, con la loro carne.
Il mâchon, ossia la colazione di metà mattina, qui è davvero ricco. Se ci finite in mezzo, scordatevi di pranzare.
Una regione in sala da pranzo
Una concentrazione incredibile di grandi ristoranti. Un firmamento, per la Michelin, il territorio che da Lione conduce alla tempesta di verde del Beaujolais. Qui nasce il nuovo, la generazione X dei cuochi francesi. Una nouvelle vague che rispetta i ricettari del passato, quelli che hanno reso famoso Bocuse, per intenderci. Ma che ha l’obbligo di restare al passo con l’innovazione che soffia vapore (e azoto liquido) a San Sebastian come a Londra.
Lo spiega perfettamente Jean Brouilly, uno dei mostri sacri della cucina francese classica. Bocuse e i Troisgrois sono i suoi fratelli di cocotte, sia territorialmente che culturalmente. Qualche anno fa Brouilly, stanco, ha venduto il suo ristorante di Villfranche sur Saon. E ora si gode la meritata pensione. Ah, ovviamente il suo ex locale non ha più stelle…
“Sono entusiasta degli chef giovani di oggi – spiega Brouilly, con lo sguardo che si illumina -. Sono diversi da come eravamo noi. Noi avevamo ricettari da rispettare scrupolosamente, affinati in secoli di precisione maniacale.
I ragazzi godono di un’altra prospettiva, sono più liberi. Preferiscono lavorare con meno personale, curano la qualità rispettando il cliente con prezzi più giusti. Sono magnifici. E comunque anche loro hanno dovuto sudare con i libri di cucina, prima di dare spazio alla creatività. Per fare poesia bisogna prima imparare a leggere…”.
E voi come eravate?
“Noi eravamo grandi. Vivevamo una comunione, ma ognuno aveva una sua straordinaria personalità.
E nessuno copiava dagli altri, non ci sarebbe mai nemmeno venuto in mente. Con “noi” parlo di Alain Chapel, Pier e Jean Troisgrois, Pierre Gagnaire, lo stesso Bocuse. La cucina è come la pittura. Ognuno può avere pennello e colori, ma poi ci vuole talento. E noi ne avevamo tanto”.
Chi sono i suoi preferiti, oggi?
“Terrace de Pomiers, Auberge cloche merle, Beaujolais Belleville. Tutti hanno in comune un segreto. Vanno in cerca di buoni prodotti, ma non solo per ciò che riguarda gli ingredienti di richiamo, come, non so, foies grois. Cercano anche le materie più banali di altissimo livello. Uova, carne, pesce di giornata”.
Brouilly poi ha lavorato un po’ in cucina, tanto per ricordare che lui è davvero uno mitologico. Ha preparato – con una pulizia formale che neanche un maestro kaiseki – un uovo di quaglia al Beajolais bianco. Burro, scalogno, porro, panna e fiori di campo. Lavorazione minimal, sapori di genio. Chapeau.
“Quello che voglio fare adesso – chiosa Brouilly – è insegnare a cucinare. A casa mia, nella mia cucina, a Villafranche. Insegnare alle persone che vengono lì, facciamo la spesa insieme e alla sera mangiamo quello che abbiamo preparato insieme. Questo è quello che voglio dalla vita. Sa, ho fatto tre volte il giro del mondo. Non c’è altro”.
Giovani, creativi, molto occupati
Non è vero che la cucina francese contemporanea pecchi in creatività. Certo, qui ci sono basi che nessuno può ignorare. Un Adrià non sarebbe potuto nascere a Lione, probabilmente. Ma c’è comunque gente che fa cose spaziali.
Chateau de Bagnols dei quattro più spettacolari castelli del mondo, secondo Relais & Chateau. Nella cucina (a vista) di questo antico palazzo nel cuore del Beaujolais lavora Matthieu Fontaine. Fontaine è un 41enne chef con una lunga esperienza di locali stellati tra Rouen, Parigi e Lione.
Forse per questa esperienza ha maturato un’identità forte che si distacca molto dalle scuole di pensiero attuali.
“La cucina francese è un patrimonio da preservare – evidenzia Fontaine -. Qui abbiamo una tradizione, che nasce dai Michel Blanc, dai Bocuse, dai Ducasse. Fortissima, pregnante, qui da noi non sarebbe mai potuto nascere un Adrià. Però ci sono stati chef che ne hanno seguito le orme. Sbagliando, perché non era nel loro dna. Ora si sta tornando indietro. Certo, da Blanc c’è stata un’evoluzione. Usiamo meno burro, meno panna, meno vinaigrette. E più materie prime che magari arrivano da lontano, da altri continenti”.
L’alleggerimento passa anche dagli strumenti tecnici, per Fontaine: una plancia antiederente richiede meno materie grasse, e la levità ci guadagna.
Da questa weltanshaung prendono vita piatti come i ravioli di anatra e foie gras, appena inumiditi da una confettura di cipolle e una mousse di champignon. O l’ala di razza spellata, un’interpretazione di questo pesce degna di un quadro di Mirò. Una colorata geometria di carciofi, pomodori e agrumi a confezionare il piatto. Perfette anche le chips di topinambour, porro e pancetta, o il tiramisù preparato con il formaggio caprino. Il giusto compromesso per il futuro è Matthieu.
Segnalato come molto più creativo è Nicolas Le Bec, due stelle in pieno centro a Lione, sulla Rue Grouere. Il locale, non c’è che dire, è elegantissimo, così come il servizio è ottimo e abbastanza informale, rarità fra i ristoranti a nord del Frejus.
Le Bec ha dovuto costruire un ristorante impeccabile. I severi critici di casa non dovevano avere appigli su cui concentrare i loro strali. E all’interno di uno schema molto preciso è nata la sua filosofia. Creatività in una griglia rigida. Il riferimento letterario, guarda caso francese, è “Esercizi di stile” di Raymond Queneau.
Sta di fatto che la ricerca di Le Bec è ai massimi livelli, ma è diversa da quella che si attua in Spagna o su certe tavole degli Stati Uniti. E’ tutto molto solido e ponderato. E colorato. I colori rendono i piatti di Le Bec unici.
Come le capesante in besciamella e puntarelle che ricordano le prove di colore del Burri più maturo. Ma va bene, è un course fantastico anche per chi non ci vede Burri… Elegantissimo è invece il piccione in salsa di vitello con purea di patate e citronella. E così è favolosa la piccola pasticceria, un po’ meno la mousse calda di cioccolato con un cuore di gelato al caffè brasiliano. Bella l’idea, un po’ difficile la coesistenza di temperature diverse con texture comunque simili. Ma Le Bec è poco più di un ragazzo, basta lasciarlo lavorare… E tornare una volta all’anno da queste parti, per scoprirne le nuove meraviglie.
Gemellaggio Beaujolais-Romagna
Lo scorso marzo si è tenuta la prima edizione di “A table avec les etoiles”. Un gemellaggio ad alta gradazione culinaria fra la Romagna e il Beaujolais. Organizzato dalle Camere di commercio di Forlì-Cesena, Rimini e italiana in Francia.Un incontro di culture che ha visto protagonisti due chef italiani (e stellati) in trasferta, Vincenzo Cammerucci e Alberto Faccani. Ma con loro, per la tre giorni di incontri allo Chateâu de Bagnols, c’erano anche molti produttori di qualità. Che hanno così fatto assaggiare le loro delizie al pubblico francese. Che ha così potuto conoscere i salumi di mora romagnola di Fausto Zavoli, le specialità ad alto contenuto zuccherino di Dolciaria Luigia e Modigliantica, i formaggi del Caseificio Mambelli e dell’Antica Cascina, l’olio di Sapigni e i prodotti da forno di Come una volta. Ma la tenzone è avvenuta soprattutto sui vini: i classici d’Oltralpe contro sangiovese e albana. Le aziende presenti erano Luvass, Guarini, Fattoria Ca’ Rossa, Podere Vecciano e Bissoni.