La cucina è uguale per tutti (e per una volta non stiamo parlando di portafogli)? Sembrerebbe proprio di no a sentire Rosamorena Scarano, l’unica neurochirurga-urologa paraplegica al mondo, autrice di una guida chiamata Torino accessibile, compilata raccogliendo le testimonianze di ispettori paraplegici e focalizzata in gran parte sulla ristorazione di ogni genere e fascia. Un cahier des doléances che getta luci spietate sull’ipocrisia di un settore, dove è facile riempirsi la bocca di belle parole finché non tocca scomodare il dio denaro. Luigi è paralizzato dall’età di 10 anni e non può scendere le scale del ristorante (e quanti locali vanno su e giú, anche prestigiosi?), Paolo, cieco dalla nascita, ha problemi con il menu (disponibile in braille?), mentre l’accompagnatore di Romina, paralizzata anche agli arti superiori, non viene messo nelle condizioni di aiutarla.
Di La Madia
La corsa ad ostacoli inizia al parcheggio, ma le barriere architettoniche sono disseminate per tutto il pasto. Insomma, se un paraplegico può diventare neurochirurgo o fisico nucleare, vincere premi Nobel e premi Oscar, probabilmente non potrà andare a festeggiare a cena con gli amici. Ruth Reichl, critica gastronomica del New York Times, nel suo irresistibile Aglio e zaffiri si travestiva da anziana per sondare le discriminazioni del settore (ed esclamava trionfante: “Stasera abbiamo vendicato tutte le vecchiette di New York!”), ma forse sarebbe ora di mettersi nei panni di questa fascia di clienti, che Rosamorena definisce il locus minoris resistentiae, l’anello piú debole della catena. A palato immutato, attenzione: a tavola l’handicap non c’è, il problema è arrivarci! Tutto questo nonostante la molla dell’interesse: storicamente la prima città accessibile è stata Las Vegas, dove i reduci della guerra del Vietnam andavamo a giocarsi le loro congrue pensioni.
Qual è il problema principale dei diversabili al ristorante?
Sicuramente l’accessibilità. Esistono leggi europee standardizzate che stabiliscono determinati crismi, come la larghezze delle porte, ma l’Italia, anche se vuole sembrare all’avanguardia, è arretrata. L’handicap fisico è molto penoso, richiede di abbattere porte, allargare muri, togliere barriere. Il problema inizia per strada, prosegue sul marciapiede, sulla soglia e nelle sale sopraelevate, poi c’è il bagno, che spesso è inaccessibile. La soluzione non è trovare qualcuno che aiuti a salire le scale, ma mettere la persona nelle condizioni di essere autonoma tutte le volte che è possibile. Il servizio o il personale non bastano: è una questione strutturale. Il diversamente abile cerca autonomia, non qualcuno che lo porti su per il cingolato o per le scale, quando magari manca il campanello.
Questo problema riguarda tutti i tipi di ristorazione?
Direi che va a fortuna. Nella trattoria affollata con i tavolini stretti è piú difficile passare per chi è in carrozzina, quindi spesso il ristorante piccolo è penalizzato. Ma ci sono anche locali felici, eccezioni virtuose. Di converso esistono posti molto lussuosi che hanno barriere impensabili, al di là del palazzo storico, che dovrebbe essere adeguato dallo stato. Torino è la città piú accessibile d’Italia, in generale c’è una discreta sensibilità, ma anche diffuse situazioni di ingiustizia. Io stessa molte volte ho dovuto rinunciare a uscire.
Chi è responsabile, il ristoratore o le istituzioni?
La responsabilità è comune, perché le leggi ci sono. Tutti si lamentano dei continui controlli sull’antibagno, ma il vero problema è la mancanza di professionalità rispetto al concetto di accessibilità. La porta magari è larga, ma il gabinetto non è accessibile per altri ostacoli e gli ausili per appoggiarsi sono instabili.
Poi ci sono le barriere umane, che sono ancora peggiori. Penso ad una falsa assistenza che penalizza l’handicappato, quando magari impediscono l’accesso a luoghi poco sicuri, perché c’è un velo sottile fra la libertà e la protezione; oppure agli aspetti burocratici, ad esempio le prenotazioni e i bonifici da effettuare di persona. La barriera architettonica è una scala, una struttura visibile e misurabile, ma le barriere umane sono piú insidiose, difficilmente valutabili e profonde, soprattutto se provengono da chi ha il diritto di esercitare un potere.
…e ora nelle Marche un concorso di cucina
e un ricettario per non vedenti
Tre giorni dedicati alle percezioni sensoriali di non vedenti e ipo-vedenti: ad Offida e Grottammare, nelle Marche, tra il 7 e il 9 settembre si realizza OSCAR DEI SAPORI, un progetto di grande valore sociale, turistico e culturale promosso dalla Federturismo regionale, in collaborazione con Regione Marche, Unione Italiana Ciechi e Museo Omero.
Un percorso ideato e realizzato esclusivamente sulla base della percezione delle cose da parte dei non vedenti: tatto, gusto e olfatto, il loro ruolo fondamentale nella vita di questi disabili, approfondito attraverso una serie di degustazioni di prodotti tipici locali. Per questa occasione è stata, infatti, costituita una giuria agro-alimentare che il 7 Settembre ad Offida darà vita ad un concorso che premierà il piatto che avrà interpretato al meglio la tradizione culinaria marchigiana usando solo prodotti locali , giudicato da una giuria composta da giornalisti di settore e da non vedenti. L’iniziativa avrà un seguito interessante: la pubblicazione di un libro di ricette marchigiane scritto anche in braille. Le occasioni educative e di intrattenimento non finiscono qui: l’8 Settembre, al Kursaal di Grottammare, si terrà una prestigiosa degustazione delle eccellenze enogastronomiche marchigiane con spiegazioni di ogni singolo prodotto in braille e, sempre lo stesso giorno, 800 metri del lungomare della località saranno dedicati ad un percorso che guiderà i non vedenti sul bagnasciuga per permettere loro di “sentire” il mare, odorarne il profumo e ascoltare le onde. La kermesse si concluderà il 9 settembre con una cena di gala, ambientata in un’atmosfera di pressoché totale oscurità, per proiettare i commensali in una dimensione quanto piú fedele a quella quotidiana del non vedente, cui parteciperanno le piú importanti cariche politiche della Regione, gli sponsor e naturalmente i soggetti del progetto: non vedenti e ipo-vedenti.
Sempre al Kursaal avrà luogo un’esposizione relativa ai suoni e agli odori dell’Amazzonia: viaggio tattile e olfattivo curato da Leandra Gatti, antropologa, e Aldo Lo Curto, medico socialmente attivo da anni sul territorio sudamericano. Per quanto riguarda la parte istituzionale dell’evento, un’intensa campagna mediatica e informativa è stata avviata dalla Regione Marche, l’Unione Italiana Ciechi e Federturismo Marche per sensibilizzare il territorio alle problematiche legate al target dei non vedenti e degli ipovedenti e alla nascita di nuove forme di turismo sociale e responsabile.
La risposta degli operatori turistici locali è stata immediata e sorprendentemente positiva: molti degli attori coinvolti si sono resi disponibili alla sponsorizzazione dell’evento e, soprattutto, ad attivare migliorie sulle proprie strutture, così da renderle idonee al target dei non vedenti.
A tutto ciò va aggiunto un corso di formazione di 50 ore, tenuto dalle associazioni di non vedenti, indirizzato agli operatori turistici, che intendono approfondire queste tematiche per assicurare un servizio adeguato, creando contesti di socializzazione e integrazione che portino al superamento degli stereotipi sulle dis-abilità. Piccole accortezze, che bastano a rendere la vita e gli spostamenti del non vedente piú semplici e confortevoli. Basti pensare che l’attenzione di un ristoratore, nel disporre di menu in braille, o nel servire la frutta già sbucciata, piuttosto che un pesce già pulito, oltre ad alzare la qualità del servizio, rende accessibile la struttura ad un target purtroppo molto vasto: si pensi che solo in Italia i sono 900 mila i non vedenti e ben 25 milioni in Europa.
Nel progetto sono state coinvolte associazioni di non vedenti di tutta Europa, i Comuni marchigiani a vocazione turistica, le Province, il Centro Servizi per il Volontariato, gli Enti e le associazioni coinvolte nel progetto CARE (Città Accessibile nelle Regioni Europee), le Aziende produttrici, strutture ricettive e di ristorazioni interessate.
Diversamente cuochi
A Firenze i ragazzi con handicap intellettivi imparano a cucinare.
Ma il mondo della ristorazione è in grado di accettarli?
di Mauro Pratesi
Per lavorare in cucina ci vogliono tante qualità e tante abilità, è inutile che lo diciamo a chi ci legge. E allora com’è possibile che uomini e donne “senza abilità” come appaiono dall’esterno i disabili (è la parola stessa a suggerirlo) possano svolgere con profitto queste delicate mansioni? Come vedremo, uno sguardo un po’ piú attento ed aperto porta a scoprire potenzialità nascoste, e – se si ha la pazienza e la disponibilità per farlo – porta a percorrere la strada che conduce dal “disabile” al “diversabile” (diversamente abile). Sbaglierebbe chi considerasse la seconda definizione semplice eufemismo, una formula linguistica politicamente corretta che si usa solo per non offendere chi è meno fortunato. Certo, per qualcuno può essere anche questo – l’ennesima ipocrisia. Ma non è così per chi quel passaggio l’ha vissuto e combattuto in prima persona, come una piccola grande rivoluzione, frutto di una conquista della coscienza individu ale e sociale: uno stadio superiore di consapevolezza che ciascuno e tutti con fatica sono riusciti a raggiungere. Per poter fare anche noi questo passo, o comunque tentare, ci siamo rivolti ad una persona che vive dal di dentro il problema. Clara Manfredi è una signora molto affabile e gentile, che si presta di buon grado a soddisfare le nostre tante curiosità. Clara è stata cuoca apprezzata nei ristoranti, e da alcuni anni si occupa a tempo pieno di didattica (insegna tuttora cucina presso il Centro di Formazione Professionale del Comune di Firenze). Si è particolarmente appassionata all’insegnamento della materia ai soggetti piú deboli, come gli immigrati e i disabili, attività che svolge con dedizione assoluta e risultati eccellenti. In questo momento offre il suo contributo volontario in un centro specializzato, Il Faro, di cui parliamo a parte. Una premessa: ci siamo riproposti di non edulcorare la realtà, di non dipingere a tutti i costi un quadretto idilliaco, edificante e consolatorio.
La cosa peggiore, quando si parla di persone con handicap fisici o mentali, ancora piú fastidiosa del pietismo, è la mitizzazione della diversità. Nel nostro colloquio con Clara abbiamo cercato di non cadere in questa trappola.
Clara, puoi dirci cosa significa per te lavorare con ragazzi che hanno dei problemi?
Clara: Per una persona come me vuol dire esserci dentro fino al collo, un coinvolgimento totale, innanzitutto sul piano affettivo, perchè poi non esiste un’altra chiave per entrare davvero in contatto con questi ragazzi. Insegnare e imparare sono solo momenti di un intenso rapporto interpersonale. La didattica deve sempre avere anche un contenuto emozionale, sennò non passa. Persino un argomento serioso come la storia della cucina i ragazzi lo riempiono con lo loro anima. Voglio raccontarti un aneddoto. Avevo parlato un po’ di Pellegrino Artusi, della sua casa fiorentina in piazza d’Azeglio, della sua attenzione per la nostra cucina locale. Ebbene, una mia allieva s’era fatta l’idea che Artusi fosse fiorentino, e ne era molto orgogliosa. Ma un bel giorno salta fuori che era di Forlimpopoli. Apriti cielo! La ragazza si è messa piangere disperata…
Ma la full immersion emotiva non è controproducente? Dico sul piano didattico…
C.: Attenzione, io non sono una psicologa. Non devo surrogare compiti altrui. E infatti me ne guardo bene. Il mio lavoro è sempre accompagnato e sostenuto da persone qualificate, ci mancherebbe altro. E’ proprio grazie a loro che io posso permettermi di vivere senza timori questa bellissima esperienza educativa.
Di preciso, quali problematiche hanno i tuoi allievi?
C.: Le piú varie: sindrome di Down, ritardo mentale, disturbi del comportamento…
E per tutti adotti lo stesso metodo, lo stesso approccio?
C.: No, ma non tanto perchè sono categorie o tipologie diverse, ma perchè ciascuno di loro è una persona diversa dalle altre. A volte ci sono similitudini trasversali, o differenze irriducibili tra soggetti che in teoria dovrebbero essere omogenei. L’individualità prevale sempre, e di gran lunga, su qualunque tipo di patologia uno possa avere. Comunque esistono anche delle costanti: i ragazzi Down, per esempio, hanno quasi sempre un deficit di manualità che va considerato.
Quali sono le maggiori difficoltà che incontri?
C.: Mah, forse è proprio l’impossibilità di insegnare ad un gruppo, nel senso corrente del termine, ma a tanti singoli enormemente diversi tra loro. Ognuno ha i suoi tempi di apprendimento, attrarversa le sue fasi, le vittorie e le sconfitte, l’esaltazione e la depressione. E’ un problema che esiste sempre quando si insegna ad una classe molto disomogenea, ma qui lo vediamo amplificato. Per questa ragione si cerca di lavorare con pochi ragazzi alla volta. Ma spesso anche i pochi sembrano troppi. Vorrei però precisare una cosa, a scanso di equivoci: sto parlando solo di una difficoltà didattica, non sto dicendo affatto che non esiste un ‘gruppo’, che non c’è un forte legame interno tra questi ragazzi. E’ vero esattamente il contrario, ma il legame non è di tipo intellettuale, è di tipo viscerale. Il gruppo esiste eccome, provate a far piangere un ragazzo o una ragazza, e poi vedrete…
Entrando nel merito degli aspetti piú specifici del tuo insegnamento, la cucina, qual è il primo ostacolo da superare?
C.: I gusti e i disgusti di ciascuno. Da molti dei miei ragazzi è difficile ottenere quel distacco emotivo che consente, o dovrebbe consentire, ad un cuoco di fare un grande brasato anche se odia il brasato. Ho detto “che dovrebbe consentire”: infatti non sono sicura che nella realtà le idiosincrasie personali non contino nulla. Spesso si finge, non se ne parla, si rimuove il problema. Ecco, questi ragazzi non rimuovono un bel nulla, pongono la questione nel modo piú esplicito e piú drastico: io il pollo non lo cucino, dal momento che non mi piace.
Come se ne viene a capo?
C.: Gradualmente. Magari all’inizio si fa leva ancora una volta sull’affettività, che è la cosa piú facile da capire: prepara il pollo per il tuo amico, che gli piace tanto. Poi però si riesce anche ad oggettivare un minimo: è bello preparare il pollo per tutti quelli a cui piace. E infine: è importante saper cucinare il pollo, dal momento che ci sono tanti a cui piace. Il problema della difficoltà a compiere astrazioni e generalizzazioni si presenta in modo particolarmente acuto quando devono imparare a correggere il gusto: per esempio ad aggiustare di sale una pietanza. Il concetto della medietà, in medio stat virtus, non è per niente facile da insegnare…
E sul piano delle capacità strettamente tecniche? La cucina è fatta soprattutto di manualità…
C.: Su questo c’è molto da lavorare, è ovvio, ma non credere che il problema non esista anche coi cosiddetti normodotati. Lo so bene io, che ho fatto anche corsi a livello amatoriale per adulti, per i cuochi della domenica. Ho avuto allievi disastrosi, gente incapace di tenere in mano un coltello oppure pericolosamente incline a farsi del male… Insegnare era inutile, e molte volte mi sono chiesta chi glielo faceva fare. Non sarebbe stato meglio per loro andare a farsi delle passeggiate all’aria aperta? Qui almeno abbiamo l’immensa soddisfazione di vedere che anche un piccolo progresso ha valore inestimabile, e significa crescita per la persona nel suo insieme, e non solo l’acquisto di una competenza superflua, o che al massimo servirà per farsi belli con gli amici.
Sì però quando si tratta di apprendere procedure complesse, questi ragazzi non vanno in crisi?
C.: No, non è un problema di complessità. Alcuni ragazzi che ho avuto sapevano a memoria tutti i passaggi di ricette molto complicate e le eseguivano in modo egregio. Casomai le difficoltà nascono quando le circostanze richiedono maggiore duttilità, maggiore elasticità mentale. Quando per esempio viene a mancare un ingrediente e va sostituito con un altro. In tal caso quello che è un disagio normale per un neofita, qui diventa uno scoglio insormontabile. Mi spiego: tutti noi imparando una cosa nuova abbiamo bisogno di qualche certezza. Ricordo i miei primi passi nell’apprendimento del computer: avevo scritto tutto su un quadernino e mi arrabbiavo moltissimo quando un amico piú evoluto mi consigliava sistemi migliori per fare le medesime cose.
Ormai avevo memorizzato quelli, e non avevo nessuna voglia di cambiare. Mi sembrava di dover ricominciare tutto daccapo, ed era fastidiosissimo. Devi pensare che questo meccanismo difensivo tipico del principiante?
è moltiplicato per cento, in un ragazzo che ha fatto cento volte piú fatica di te per imparare quella certa cosa.
Via, allora diciamo che la creatività, l’inventiva e l’improvvisazione non sono il loro forte…
C.: Messa così non mi piace, e poi non è del tutto vero. Diciamo invece che sono molto frenati dalla paura di perdere ciò che hanno appena conquistato, e che li ha resi così felici e orgogliosi. E’ il comprensibile timore di cambiare ciò che nella loro vita ha funzionato, una volta tanto. E di incontrare nuove frustrazioni. Ma la creatività non c’entra. Quella loro ce l’hanno, basta metterli in condizione di esprimerla. Una volta stavamo preparando la pizza e un ragazzo mi ha chiesto perchè dovesse essere per forza rotonda. Lì per lì la domanda mi ha messo un po’ in imbarazzo, lo confesso. La pizza è tonda perchè il piatto è tondo? O viceversa? I primi piatti, nella notte dei tempi, potrebbero essere stati costruiti proprio ad imitazione delle focacce, che fino ad allora venivano usate appunto per appoggiarvi il cibo, oltre che per mangiarle. Ma perchè le focacce erano tonde? Anche qui volendo potremmo fare molte ipotesi… Insomma: non è affatto una domanda banale, come spesso non lo sono le domande dei bambini. A quel punto, piuttosto che arrampicarmi su difficili tentativi di spiegazione, mi è sembrato piú giusto lasciarlo libero di dare lui una sua interpretazione della pizza: “Perchè non la fai a modo tuo?”. E ne è uscita fuori una cosa divertente, a forma di barchetta…
L’aneddoto è bello ma persino la creatività, nel nostro mondo, deve rispondere a certe regole. Voglio dire: se quel giovanotto andrà a lavorare in pizzeria non potrà fare le pizze come gli pare, magari ogni volta una forma diversa…
C.: E perchè no? Certo, il titolare dovrà dare il placet, e il pubblico dovrà essere avvertito: a qualcuno potrebbe capitare una pizza pazza! Sai che un’idea simpatica? Magari poi diventa una moda…
Ridendo e scherzando, abbiamo toccato forse il punto piú delicato di tutti, quello dell’inserimento sul posto di lavoro…
C.: Io devo chiedermi non tanto se un ragazzo si saprà inserire, ma se l’ambiente sarà in grado di accoglierlo. C’è sufficiente cultura dell’accoglienza, nei confronti di persone portatrici di una specificità umana così forte? C’è sufficiente sensibilità? C’è disponibilità? Le cucine di solito sono luoghi pieni di stress e di tensioni, che potrebbero essere vissute drammaticamente da un soggetto debole. Intendiamoci, ci sono stati anche dei casi in cui la presenza di un Down, così dolce e indifeso, ha fatto il miracolo di rasserenare tutto l’ambiente, ma purtroppo di solito le cose vanno in un altro modo. Pesa molto l’atteggiamento iniziale di chi si assume la responsabilità di accogliere un diversabile. La cosa piú nefasta sarebbe considerarlo come forza lavoro bruta, grezza, e perciò piú facilmente plasmabile sulle necessità di una cucina. Può esserci la tentazione di sfruttare – magari in buona fede – la gran voglia di fare di un ragazzo solo per riempire qualche buco e per svolgere qualche mansione particolarmente ingrata. Intendiamoci: tutto può andare bene, almeno all’inizio, basta che ci sia rispetto per la persona e interesse per la sua crescita, umana e professionale. Nella lungimirante consapevolezza che potrà diventare un patrimonio per il locale stesso.
Sì, tutto giusto. Ma veniamo al sodo: quali sono i risultati del tuo lavoro, in termini di numeri? Quanti dei tuoi ragazzi entrano nella cucina di un ristorante? E quanti vengono assunti, alla fine?
C.: Preferisco non parlare di percentuali, anche perché per correttezza il raffronto andrebbe fatto con il mondo della scuola nel suo complesso. In Italia quanti ragazzi arrivano alla fine del corso di studi intrapreso? Quanti tra loro trovano subito lavoro? Se ci si aspetta che tra i diversabili ci siano numeri addirittura migliori delle medie nazionali dei normodotati, si pecca di ingenuità. Ma non voglio eludere la tua domanda. I nostri ragazzi che vengono assunti da un ristorante sono pochi.
Bisogna però considerare che qui da noi non viene fatta nessuna preselezione, nessuna scrematura. Si comincia a lavorare con un gruppetto di ragazzi delle cui eventuali attitudini culinarie non sappiamo ancora nulla. Sarebbe come prendere a caso alcune persone che passano per strada, e aspettarsi di trovare subito qualcuno portato per la cucina.
Allora ti farò una domanda ancor piú esplicita, forse un po’ impietosa: mi puoi garantire che un ragazzo con un certo tipo di problemi, come sono quelli di cui ti occupi, può davvero diventare uno chef?
C.: Ti risponderò anch’io in modo esplicito. Una cosa è riuscire ad insegnare a questi ragazzi qualcosa che li aiuti ad essere autonomi, e la cucina può essere importante. Cosa diversa è insegnare a diventare un cuoco professionista. Il percorso sarà assai piú lungo e difficoltoso, e non è detto che vada a buon fine. Non si tratta di mancanza di fiducia, ti assicuro che di fiducia in questi ragazzi io ne ho tanta e penso che sia ben riposta. Ma, come ti dicevo prima, dobbiamo anche chiederci quanto un ragazzo diversabile sia “vocato” per la professione, che è poi la stessa domanda che ci porremmo per chiunque altro. Non sta scritto da nessuna parte che uno debba fare per forza il cuoco. Ma a volte si scoprono delle attitudini eccezionali, si trovano persone che sembrano molto piú a loro agio ai fornelli che in tutte le altre situazioni della vita. Certo, poi molto dipende dall’ambiente in cui andranno a inserirsi. Ci sono contesti migliori di altri anche strutturalmente, oltre che psicologicamente. Per esempio, una cucina grande, importante, offre una bella gamma di opportunità: ci sono tanti ruoli da coprire ed è anche possibile ritagliare uno spazio personalizzato, cucito su misura sulle capacità di un singolo, anche di un singolo molto speciale. A Firenze abbiamo ristoranti stellati che impiegano con profitto ragazzi e ragazze diversabili. Ma anche un ambiente con caratteristiche opposte potrà risultare favorevole. Pensiamo alla cucina di una piccola trattoria a gestione familiare: se viene fatta la scelta di prendere un ragazzo diversamente abile, di sicuro a monte c’è una generosità, una simpatia, che semplificherà tutto. Quel ragazzo sarà trattato come un figlio, avrà comprensione e fiducia, e saprà rendersi enormemente utile alla causa. Comunque, per concludere la nostra chiacchierata, voglio dirti che se anche sono pochi a farcela, se anche al limite fosse uno su mille, come dice la canzone, ne varrebbe lo stesso la pena.
In alta Romagna il primo albergo per non vedenti
Il I° albergo in Europa per non vedenti porta il nome, la sensibilità, la professionalità di Paola Michelacci, imprenditrice marchigiana nota per aver speso oltre 30 anni nel mondo del turismo, riuscendo a coniugare azienda ed impegno sociale. Leader della Michelacci Organization, è stata di recente premiata da Confindustria delle Marche proprio per la sua attività imprenditoriale.
La Michelacci Organization è diventata nel tempo una catena alberghiera composta da 10 hotel e 4 residence distribuiti soprattutto tra le Marche, la Romagna e la Val Gardena, per 1000 posti letto, 288 dipendenti e un indotto di 450 occupati. La società si è rivelata anche pioniera in alcuni ambiti come il turismo kosher. Ed è sempre della Michelacci il progetto di aprire entro l’anno il primo albergo su misura per non vedenti tra i boschi dell’Appennino forlivese, a Santa Sofia, luogo che sarà non solo di vacanze, ma anche di formazione professionale per gli addetti del settore.
“Si chiamerà Palazzo Michelacci la storica struttura che stiamo attrezzando con accorgimenti e strumenti tecnologici utili a far muovere i non vedenti in un ambiente per loro confortevole. Dall’ascensore con informazioni vocali e tasti in Braille alle diverse verniciature dei pavimenti per favorire l’orientamento, l’albergo dovrà avere caratteristiche del tutto simili a quelle che loro vivono nel quotidiano. Ma non si tratterà di un ghetto – conclude Michelacci – bensì di un ambiente molto piacevole e curato, fruibile da tutti”.
Quelli del FARO
Il Faro è gestito da un Raggruppamento Temporaneo d’Impresa formato dalle Cooperative sociali-ONLUS ‘G. Barberi’ e ‘Il Girasole’, insieme con l’Associazione di Volontariato C.U.I. (Comitato Unitario Invalidi). La sua definizione ufficiale è “Centro Diurno di osservazione e orientamento al lavoro e di autonomia avanzata”. Si tratta in pratica di una struttura creata per persone diversamente abili (diversabili, per brevità), che necessitano di percorsi individualizzati per conquistare la propria autonomia, in primis, e poi, se possibile, per impadronirsi degli strumenti che possano facilitare l’accesso al mondo del lavoro. Accanto alla cucina, sono molti gli ambiti della vita che qui si insegna a maneggiare con la dovuta proprietà. Sono cose quotidiane, ma non banali. Tanto che spesso mettono in difficoltà anche chi si considera ‘normale’: i soldi, il telefono, le faccende domestiche, la cura della persona, la sessualità e quant’altro possa creare difficoltà o disorientamento. Altre attività fondamentali riguardano la crescita della sfera cognitiva, di quella espressiva e di quella sociale: per esempio si impara ad usare il computer, si dipingono dei quadri e si va al cinema tutti insieme. Per quel che riguarda la preparazione al lavoro, l’aspetto che si cerca di curare maggiormente è quello della manualità, che per alcune persone diversabili è una cosa da conquistare gradualmente e con fatica. Ecco allora l’importanza dei laboratori per il bricolage, per la lavorazione del vetro o della ceramica, per l’ortovivaismo ecc., dove l’incremento delle abilità manuali va di pari passo con la crescita dell’autostima e con l’acquisizione di una professionalità specifica. Entrando poi nel dettaglio del tema culinario, che interessa in modo paricolare i lettori de La Madia, al ‘Faro’ si può imparare il lavoro di ‘addetto alla cucina’ e quello di ‘addetto alla sala’. Nell’intervista a un’insegnante, la signora Clara Manfredi, si spiegano meglio i contenuti e i problemi che comporta per i ragazzi e per chi li segue questo tipo di attività. Il corso dell’ultimo anno si è concluso con una cena per 120 invitati, naturalmente preparata dagli apprendisti cucinieri e servita dagli apprendisti camerieri (l’evento è documentato dalle foto che potete vedere in queste pagine, scattate da Micaela Rostan). Alle grandi manovre in cucina hanno partecipato due ospiti d’eccezione: Angelo Mazzi ed Elisa Ortolani, lui Presidente dell’Associazione Cuochi di Firenze (a cui anche Clara appartiene), lei responsabile delle ‘Lady Chef’ fiorentine. Sarà lo stesso Mazzi, al termine della cena, a consegnare ai giovani i loro sudatissimi diplomi, in un crescendo di entusiasmo e di commozione
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Volontariato e non solo
Oggi esistono varie opportunità formative per i diversabili, anche nel settore della cucina.
Ci sono attività portate avanti dal volontariato, che svolge come sempre un ruolo importantissimo, ma ci sono anche attività inserite nei programmi della scuola pubblica. Non ci è possibile fare un elenco esaustivo dei soggetti e delle iniziative: ci limiteremo a qualche esempio preso sul territorio fiorentino.
Encomiabile ci è parsa l’idea dell’Associazione di Promozione Sociale ‘Sipario’, che si è conquistata spazio anche sui giornali proponendo per gli aspiranti cuochi, ragazzi e ragazze con handicap intellettivo, uno stage straordinario: una giornata a cucinare su un veliero sotto la guida di tre noti chef.
Un momento didattico importante all’interno del loro tirocinio formativo, per l’avviamento al lavoro nel campo della ristorazione (l’iniziativa si chiama ‘Per-corso Ristorante&Oltre’).
Nell’ambito della scuola pubblica, sono già operativi alcuni progetti interessanti. C’è un progetto europeo dedicato proprio all’inserimento dei ragazzi disabili nella scuola superiore e nel lavoro: il Progetto Europeo di Formazione degli Alunni Disabili “Les Restos du Handicoeur ”, orientato verso il settore della ristorazione. Questo si è tradotto nel progetto SAL (Scuola Al Lavoro), a cui hanno partecipato – nell’area del capoluogo toscano – gli Istituti Alberghieri Buontalenti, Saffi e Vasari, in sinergia con il collocamento mirato Provincia-Asl.
I risultati concreti non si sono fatti attendere: il 10% di ragazzi diversabili può passare immediatamente dalla scuola al lavoro, con ottime prospettive per un impiego duraturo.
di Alessandra Meldolesi e Mauro Pratesi.