Nel panorama veg, ci sono tanti cuochi che con passione cucinano vegetale. Tra i migliori che con maestria e sapienza trasformano gli ingredienti in piatti straordinari, c’è proprio lui, Pietro Leemann, 1 stella Michelin!
Chef, lei da giovanissimo è stato piacevolmente colpito da una Charlotte Russe alla vaniglia preparata dello chef Angelo Conti Rossini, figura molto importante nella sua vita. Ci può descrivere in che modo?
Angelo Conti Rossini era una persona molto carismatica dalla formazione tradizionale rigorosa. Un tempo fare il cuoco implicava un apprendistato impegnativo, col quale si acquisivano competenze importanti anche a livello pratico nell’eseguire i piatti, e lui si appoggiava proprio ad una scuola caratterizzata da una disciplina estrema. Qualsiasi cosa prendeva in mano, Angelo Conti Rossini lo trasformava in un piatto sublime. E questo mi colpì molto. Ciò che mi affascinò è che quella bavarese aveva anche una forza educatrice e di trasformazione delle persone che la mangiavano. Ho seguito quest’aspetto della sua cucina in tutti questi anni e tuttora è qualcosa che fa parte della mia ricerca e del mio modo di proporre la cucina.
Agli inizi della sua carriera, Angelo Conti Rossini l’ha aiutata a lavorare ed incontrare altri chef importanti tanto quanto lui.
Sì, nei primi passi soprattutto! Chi impara a cucinare è importante che vada da maestri molto validi, in particolar modo all’inizio della propria carriera, perché ci sono delle conoscenze che non sono scritte sui libri e vanno imparate “sul campo”. Angelo Conti Rossini mi ha aperto le porte delle prime realtà che mi hanno formato e che sono stati fondamentali per la mia carriera.
Lei ha lavorato a fianco di grandi chef come Conti Rossini, Fredy Giradet e Gualtiero Marchesi. Se dovesse descriverli con un aggettivo, compatibilmente con la sua esperienza personale diretta, come li definirebbe?
Angelo Conti Rossini era molto simpatico; Fredy Giradet era un aristocratico della cucina; Gualtiero Marchesi era una personalità entusiasta della vita.
Più di 30 anni fa decide di diventare vegetariano. C’è stato un episodio in particolare che l’ha portata a prendere questa decisione, oppure è stato il frutto di un percorso interiore?
È stata una trasformazione graduale, generata dal rendermi conto che la cucina che facevo nei ristoranti ed i piatti che preparavo erano molto buoni ed anche straordinari, ma poco attenti all’aspetto nutrizionale ed anche all’aspetto etico del cibo a 360°. La questione nutrizionale l’ho vissuta in prima persona, perché da cuoco generalista onnivoro, cucinavo e mangiavo di tutto, ma quella dieta non mi faceva sentire bene fisicamente come avrei voluto. Tutto ciò ha fatto scattare la scintilla iniziale che si è sviluppata includendo la mia esperienza orientale, le mie ricerche e tutte le trasformazioni avute nella mia vita. Il fatto che io non stessi tanto bene a livello fisico con una dieta onnivora è stata la mia fortuna, perché mi ha permesso di scoprire un mondo straordinario.
Essendo la sua scelta vegetariana dettata anche da motivazioni etiche, com’è stato lavorare in cucine dove doveva per forza cucinare piatti con carne e derivati animali?
Per qualche anno ho sofferto, vivevo un mondo esterno a me che non mi corrispondeva più e quindi avevo un grande travaglio interiore. Non ero contento, per questo ho deciso di aprire Joia. Con il Joia potevo essere indipendente e fare ciò che sentivo fosse giusto per me.
Appena diventa vegetariano affronta questo viaggio in Oriente: prima vive e lavora in Cina e poi anche in Giappone. C’è ancora qualcosa di Cina e Giappone nella sua cucina attuale?
La cucina che propongo è frutto del mio vissuto e della mia filosofia di vita. Nel mio vissuto, l’Oriente esiste in modo importante: spesso utilizzo non solo ingredienti, ma anche aspetti culturali orientali. La mia cucina è una cucina Zen-Occidentale: l’influenza estetica e lo zen, ma anche la pulizia dei piatti, sono aspetti che mi corrispondono molto e che propongo nelle mie preparazioni.
Lei ama molto leggere: quali letture predilige e quali rispecchiano di più il suo essere ed anche la sua cucina?
Trovo vari modi per leggere. Si può leggere per rilassarsi con un giallo o un romanzo, oppure si può leggere per informarsi. Adesso ad esempio sto leggendo il libro di Naomi Klein “Shock Economy” in cui parla della situazione economica del presente. Oppure scelgo di leggere qualcosa che nutre dentro, e dove ogni pagina è un arricchimento per il nostro essere. Questi ultimi sono i libri che prediligo e che vanno dalla Bibbia, alla Bhagavadgīt, allo rīmad-Bhāgavatam, ai testi di Lao Tzu dove ciò che viene espresso è scritto perché la persona che lo racconta ha vissuto direttamente quell’esperienza arricchente. Sono strumenti per vivere meglio il percorso di ognuno, perché ognuno di noi, in un modo o nell’altro, volente o nolente, fa un viaggio di vita alla scoperta. Riuscire a migliorare questo viaggio attraverso persone che ne sanno più di me, è una cosa straordinaria e quella che mi piace di più.
Come definisce oggi la sua cucina e come nascono i suoi piatti?
La cucina del Joia è una cucina che fa bene a chi la mangia, fa bene a tutti gli esseri e fa bene al Pianeta che ci ospita. È una cucina in armonia con il creato e con tutte le sue creature ed i piatti nascono proprio per dimostrare l’importanza di questo presupposto, quindi invento o penso a dei simboli e li trasformo in piatti. Ad esempio “Sotto una coltre colorata” rappresenta una passeggiata in un bosco, “Anima Mundi” rappresenta una frase di Platone. “Oh mio caro pianeta” è un inno al Pianeta che ci ospita, e così via. Agisco per simboli o per stimoli che cercano di arricchire chi mangia il piatto ed al contempo donano completezza al piatto che poi verrà mangiato. Inoltre rappresentano la mia filosofia e quindi “io sono e che cosa desidero essere”.
Che cosa rappresenta per lei il cibo?
Il cibo, ancor prima di essere un nutrimento sano, rappresenta chi siamo. Quando noi mangiamo e cuciniamo, esprimiamo la nostra personalità che è in continua evoluzione e difatti il mio modo di vedere il cibo si è trasformato negli anni. L’importante per me è riconoscere ciò e non mangiare un cibo, per esempio, alla moda, o solo perché lo fanno gli altri; per me è importante cercare di capire ed individuare chi siamo noi e quindi quale cibo esprimere e mangiare, partendo da noi stessi.
Lei è sempre stato un essere introspettivo e spirituale e ciò si fonde perfettamente con l’ambiente della cucina del Joia e con i suoi collaboratori. Nella prima parte della sua carriera, come riusciva a far coesistere questa sua personalità pacifica ed introspettiva in cucine che spesso erano ambienti “maschi” e talvolta aggressivi?
Un tempo la cucina veniva chiamata ed ancora oggi viene intesa come una “brigata” che di per sé è un termine militare,con un sistema di organizzazione militaresco, con tutto ciò che comporta. Quello che cerco di fare nella mia cucina è che sia una comunità, che è una cosa molto diversa. In entrambi i modi, si riesce a dare qualità. Una è data dall’impostazione militaresca, da un rigore, dal fatto che tutti ripetono in un certo modo certe azioni. Nella comunità invece si tratta di un lavoro di gruppo, dove ognuno porta un contributo per la riuscita del risultato: questa è la grande differenza su cui punto molto.
Il menu del Joia è all’80% vegan. C’è un motivo particolare per cui mantiene l’utilizzo di latticini nella sua cucina?
Non sono vegano, ma sono vegetariano per vari motivi. Ad esempio i latticini, nella cultura che seguo, sono considerati un cibo sacro e quindi fa parte della mia dieta. Inoltre vengo dalla montagna ed in montagna la cultura del latte e del formaggio è decisamente presente e mi corrisponde molto. Al contempo, la tendenza della cucina al Joia è quella di essere sempre più leggera: e un vegetariano non mangia latticini tutti i giorni e a tutte le ore, quindi l’80% dei piatti è vegano ed il 20% non lo è. Questo è ciò che è in linea con me stesso al momento. Non necessariamente l’essere vegani è il punto di arrivo: il punto di arrivo è essere in equilibrio con noi stessi. Se noi costringessimo un eschimese ad essere vegano, combineremmo un disastro perché l’estrazione è completamente diversa. Non c’è un meglio o un peggio, non penso che chi mangia carne sia peggio di me, assolutamente, penso che ha fatto una scelta diversa. La mia speranza è che abbia scelto, perché ogni cosa ha senso se scelta, altrimenti si perde qualcosa. Ad ogni modo rispetto tutti, chiunque mangi con coscienza.
Come vive Milano, la città del suo ristorante Joia, la cucina vegetariana?
Quando ho aperto Joia eravamo 3 ristoranti vegetariani a Milano; ora ce ne saranno 100: una varietà gigantesca che mi fa piacere. Milano è diventata vegetarian friendly, nel senso che così come Milano è una città accogliente per gli stranieri o per gli omosessuali, per esempio, è una città molto aperta in generale e pronta ad accogliere nuovi stimoli, perché il diverso arricchisce e questo è un presupposto per me molto importante e che mi piace molto di Milano.
Ha mai pensato di aprire in qualche altra città d’Italia?
Il Joia per come è costituito è irripetibile, è un ristorante gourmet con 16 cuochi, con un equilibrio proprio e con una scuola di cucina. Joia è un grande progetto lui stesso. Ho iniziato una collaborazione con l’Hotel Raphaël di Roma, che è diventato tutto vegetariano e dove la cucina del suo ristorante Mater Terrae è come al Joia, solo un pò più semplice, però è come al Joia. Il mio aprirmi ad altre città è per stimolare altri ristoranti a seguire ciò che conosco e la mia esperienza.
Durante i corsi nella sua scuola “Joia Academy” cosa insegna ai futuri chef? Quale messaggio vuole trasmettere e quale consiglio più importante che dona a ciascuno dei suoi studenti?
La Joia Academy nasce perché cucinare vegetariano non è facile e cucinare vegetariano-gourmet lo è ancora meno. Al Joia, nel corso degli anni, abbiamo sviluppato tecniche che prima non esistevano, come ad esempio riuscire a preparare un biscotto genovese senza uova, una maionese fatta con il latte di mandorla, far fermentare e produrre formaggi con gli anacardi. Sono tutte tecniche che abbiamo sviluppato al Joia e quindi le insegniamo alla Joia Academy. Il consiglio che personalmente lascio ai colleghi cuochi è che se si vuole cucinare vegetariano, bisogna pensare vegetariano. Non deve essere un’imitazione del piatto con la carne, ma deve essere un piatto che parte con dei presupposti vegetariani, quindi non può essere l’hamburger di soia con le verdure attorno, ma deve essere un piatto che nasce come riflessione vegetariana. Il punto di partenza è proprio questo: la cucina vegetariana è fatta di verdure, che sono alla base di qualsiasi creazione. In Italia abbiamo un patrimonio immenso di cultura anche vegetariana proprio insito nella tradizione culinaria che è anche di verdure; siamo fortunatissimi, perché da nord a sud Italia esiste una gamma immensa e straordinaria di vegetali.
Come si pone nei confronti del suo successo, come lo vive?
La cosa più gratificante è che ho avuto un sogno che poi ho realizzato. Il successo del Joia è molto appagante, perché era un’idea su cui, molti anni fa, nessuno avrebbe scommesso e difatti tutti mi dicevano “ma no, cosa vai a fare, è una cosa che non funzionerà mai”. Il successo è uno strumento utile per portare avanti il mio pensiero e far sì che le persone si avvicinino ad una cucina più vegetariana, ma anche più sana. Questo sarà il futuro, che succederà a breve ed in realtà sta già avvenendo: la cucina sarà sempre più sana, più amica del pianeta, più coerente con le persone che la mangiano. Questo è il messaggio che più mi preme diffondere.
Ci può svelare se sta lavorando ad un progetto in particolare?
Ho sempre tanti progetti: uno di questi è il concorso “The vegetarian chance”, dove cuochi da tutto il mondo si sfidano cucinando piatti vegetariani. Quest’anno si svolgerà il 12 e 13 maggio alla Fabbrica del Vapore a Milano. Un altro mio grande sogno – a cui ho iniziato a lavorare da poco – è fare un libro enciclopedico sulle basi della cucina vegetariana. Sarà un coronamento della mia carriera, perché non c’è ad oggi un compendio dove si parli dalle attrezzature alle conservazioni, ma anche alle fermentazioni, alla pasticceria senza uova, alla pasta senza glutine e anche all’aspetto nutrizionale degli alimenti, etc… È un lavoro ampio ed articolato, ma lo porterò a termine.
Quando è a casa con la sua famiglia cosa le piace cucinare, quali sono i cibi che predilige?
Mi piace offrire alle mie figlie cibi che a loro piacciono e che sono legati a quello che abbiamo vissuto tutti gli anni che siamo stati assieme, perché mia figlia più grande ha 22 anni e la seconda ne ha 18. Ovviamente eseguo una cucina un pò più semplice, ad esempio la settimana scorsa ho cucinato dei maccheroni di Kamut con dei broccoletti biologici ed una salsa di tartufo, la settimana prima invece ho cucinato una pasta di riso con verdure arrostite allo zenzero e con tofu affumicato all’interno. Nel primo caso era un qualcosa di tipicamente italiano e nel secondo qualcosa di molto orientale, ma le mie figlie sono aperte a culture diverse e sono molto sensibili al buono che rimane sempre il filo conduttore di tutto.
Anche le sue figlie sono vegetariane?
No, non sono vegetariane, seppur tendenzialmente vegetariane. Molti giovani oggi stanno cambiando la loro alimentazione e quindi sono molto sensibili ai temi ambientali che poi li orientano nelle scelte.
Se un giorno le sue figlie le esprimessero il desiderio di seguire le sue orme, ne sarebbe felice? In quale modo le aiuterebbe?
Mi piacerebbe molto e sicuramente sarebbe più facile per loro rispetto a come è stato per me. Innanzitutto direi loro di farsi una cultura, perché è ciò su cui basare la propria vita, dopodiché le spronerei ad avvicinarsi al mondo della cucina andando ad imparare nei migliori ristoranti ed in questo potrei aiutarle avendo tutti i contatti per poterle indirizzare al meglio.
+Nel 1996 il Joia è il primo ristorante vegetariano d’Europa a ricevere la stella Michelin. Come si pone oggi Leemann nei confronti di tutti i critici e le guide gastronomiche?
Prendere la stella nel 1996 è stato un grande onore, così come lo è essere seguito negli anni da tutte le guide. Sicuramente la critica gastronomica ha una sua logica che non necessariamente rispecchia la mia, ma se i parametri delle guide sono diversi dai miei, non posso obbligarle ad adattarsi al mio pensiero. Ciò che ho notato con grande piacere è che ognuno di loro si è aperto alla cucina che cambia, non sono rimasti fermi a come era la cucina trent’anni fa, ma hanno seguito la sua evoluzione. Per questo motivo sono convinto che sempre più i ristoranti non solo vegetariani, anche cinesi, giapponesi, indiani di qualità, entreranno a far parte di queste guide, perché è proprio un cambiamento culturale che sta avvenendo in tutto il mondo della critica gastronomica.
Ci sono chef di oggi che ammira in particolar modo?
Sì, ce ne sono diversi che sono anche cari amici ed alcuni di loro sono allievi di Gualtiero Marchesi, come ad esempio Enrico Crippa, Paolo Lopriore, Carlo Cracco, Davide Oldani sono persone con le quali facciamo cose e siamo vicini come affinità e pensiero verso la cucina. Ce ne sono anche altri “non-marchesiani”: mi piace molto Davide Scabin, Massimo Bottura, Pino Cuttaia (servizi nelle prossime pagine, ndr). Ci sono cuochi che, a prescindere, stimo moltissimo e ciò che trovo molto bello nel panorama italiano – nel quale la qualità è cresciuta tantissimo – è che ci sono cuochi molto diversi tra loro e che hanno espressioni di cucina molto diverse. Un pò come nel mondo del vino e anche del cibo, che sono molto diversi tra le varie regioni d’Italia. La stessa cosa succede nei cuochi. Per me questo è un segno di qualità. La qualità, per me, non è uniformità, ma è la diversità tra le espressioni.
Qualcosa che non le ho chiesto, ma che le piacerebbe far sapere ai lettori de La Madia Travelfood.
È importantissimo salvaguardare l’artigianalità della cucina senza scendere a compromessi. Sono in opposizione decisa – e lo manifesto anche spesso – alle vie facili: mi oppongo ai semilavorati che in tanti comprano e che poi rendono la cucina tutta uguale, come pure non approvo la presenza di sostanze chimiche e di facilitatori in cucina. Per me la cucina è fatta di ingredienti che si comprano e poi si trasformano proprio come faceva Angelo Conti Rossini. Gli ingredienti si trasformano con maestria ed è la maestria il succo della qualità. Gli alginati comprati chissà dove o i coloranti non sono affatto simbolo di qualità. Ciò che auspico, quindi, è che si continui ad essere artigiani della cucina.
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