Mory Sacko ha aperto un nuovo ristorante nella Ville Lumière, lasciando la cucina di Thierry Marx tra un lockdown e l’altro. Il giovane chef ha iniziato l’anno vedendosi premiare con una stella Michelin.
È possibile che il nome scelto per il suo primo ristorante riveli alcuni segreti.
Mosuke è infatti una delicata combinazione di spirito e forza: “Mo” è una particella estratta dal suo nome e “Suke” un omaggio all’unico samurai di origine africana conosciuto in Giappone.
Senza smettere mai di sorridere per tutta l’intervista, Mory racconta che non conosceva questa storia prima di progettare l’apertura del suo primo progetto gastronomico. La scoprì proprio in quel periodo, leggendo un racconto sulle disavventure di uno schiavo che un giorno venne comprato da un signore giapponese che lo elevò al rango di samurai: “Un’ispirazione perfetta per il mio ristorante!”
Mory Sacko è stato uno dei migliori concorrenti di Top Chef France 2020. È cresciuto in Francia, ma è nato a Kayem, in Senegal, da genitori maliani e senegalesi. Ha 28 anni e si è formato tra le pentole di Thierry Marx nel Mandarin Oriental di Parigi. All’inizio di quest’anno ha ricevuto il premio Young Chef Award.
Il suo stile si distingue per una sapiente miscela (non fusion!) di ispirazione africana, nutrizione giapponese e solide basi delle tecniche francesi.
So che Lei odia il termine “fusion”, come mai?
La considero una parola riduttiva. Credo che se la collegassi al mio menù gli toglierebbe alcune sfumature. Mi piace pensare che i miei progetti gastronomici possano sostenersi tra di loro, senza svilirsi come invece succede nella fusione. Vorrei che ogni cultura accompagnasse l’altra senza alterarla. Mi piace pianificare un piatto a partire da tre concetti: prodotto, condimento e tecnica.
Potrebbe fare un esempio?
Potrei preparare una sogliola bretone con un condimento giapponese, cotta su una foglia di banana. Nel mio menù ho inserito un pollo yassa come viene preparato in Africa occidentale, ma utilizzando come ingrediente base il pollo giallo francese, con cipolle Roscoff, riso Camargue, mescolato con agrumi giapponesi, come lo yuzu, per aggiungere un nuovo elemento alla tavola aromatica.
Da dove deriva questa vicinanza con la cultura giapponese?
Da giovane ero un fan dei manga, i fumetti giapponesi. Addentrandomi in questa cultura, mi si è aperto un mondo, quello del Giappone. Mentre continuavo ad alimentare il mio interesse per questa cultura, anche la gastronomia ha fatto inesorabilmente il suo ingresso. Ho trovato, con mia sorpresa, moltissime connessioni con la cucina africana. E a quel punto la strada era già spianata, non potevo più tornare indietro: ho approfondito lo studio degli ingredienti comuni alle mie radici africane e anche di quei piatti che suscitavano la mia curiosità. Grazie al mio lavoro, il mio interesse si è concentrato sulla cucina giapponese. La pandemia mi ha sottratto un viaggio in Giappone, ma lo farò appena sarà possibile. Il mio percorso nel mondo orientale si è arricchito molto a Parigi e il mio lavoro presso il Mandarin Oriental insieme al maestro Thierry Marx mi ha permesso un aproccio a molte nuove tecniche.
Aveva già organizzato l’apertura del suo nuovo locale, ma è sopraggiunto un nuovo lockdown. Come si lavora in questa incertezza?
Fin quasi dall’inizio di questo progetto del ristorante, ogni aspetto veniva toccato dalla realtà del Coronavirus. Così che quando ho deciso di portare avanti l’organizzazione dell’inaugurazione sapevo che l’incertezza sarebbe stata una costante. Quando ho dovuto fermarmi per il lockdown, ho dedicato il mio tempo ad affinare le idee. Non solo ho cercato di ottimizzare la proposta gastronomica, ma ho anche dovuto perfezionare l’aspetto commerciale e quindi realizzare uno piano per le vendite. Ho provato a non pensare molto al recupero delle spese, perché sarà sicuramente lento, almeno fino alla fine di quest’anno, e poi ho dedicato un po’ di tempo a me stesso: a riposare e a leggere. Noi chef abbiamo di solito così poco tempo per queste cose.
Ha dovuto trasformarsi in attività d’asporto.
Sì, ma è stata anche una buona occasione per venire a contatto con la gente. Venivo dall’esperienza di Top Chef dove la costante era la richiesta di selfie con cibi d’asporto. Sono abituato ad essere di riferimento per le decorazioni che io stesso creo. Una grande finestra trasparente separa il mio lavoro in cucina dal pubblico. La gente è abituata a vedermi lavorare. Fin dalle 6:00 del mattino mi vedono sollevare il pesce. È stato sicuramente un modo diverso per incontrare i clienti. Sono sicuro che anche per loro è stato altrettanto strano.
Si è discusso molto sulle donne chef e sulla loro difficoltà ad accedere al pantheon degli chef stellati. Pensa che succeda lo stesso anche per gli chef di colore?
Vengo da una casa dove cucinare era un’abitudine quotidiana. Eravamo 9 fratelli che giocavano con le pentole mentre mia madre faceva le pulizie in altre case. Quando ho deciso di studiare proprio questa materia all’università, non ho mai pensato che avrei potuto avere delle limitazioni per la mia origine o per le mie condizioni.
Sono sempre stato padrone della mia cucina? No, ma chi può dire il contrario?
Credo che vedermi in cucina dia ai ragazzi la sensazione che non sia necessario essere per forza un uomo bianco, cinquantenne e con una maglia a collo alto per essere uno chef. Non bisogna essere persone diverse da se stessi.