Ormai tutti concordano sul fatto che la differenza, nel corso di un’esperienza gastronomica, la faccia per l’appunto il servizio in Sala, vero e proprio anello di congiunzione tra quello che esce dalla cucina e quello che arriva alla pancia dell’avventore. Grande la responsabilità del sevizio di Sala, che per anni è stato ampiamente bistratto e dimenticato, talvolta sottovalutato un po’ da tutti, ma che oggi è sempre di maggiore interesse in un mercato di nicchia ormai pronto ad esplodere a livello mediatico, esattamente come accadde anni fa per i cuochi che oggi imperversano un po’ ovunque, a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Ma esiste per i giovani un punto di riferimento nella Sala così come per la cucina può esserlo stato un Gualtiero Marchesi?
Più di uno, a dire il vero, ma se dobbiamo pensare all’uomo di Sala per eccellenza, non possiamo non pensare che ad Arrigo Cipriani, la persona che attraverso il suo lavoro nell’arte dell’accoglienza è riuscito a creare prima di tutto uno stile (il suo) e poi un vero e proprio impero gastronomico che in tutto il mondo porta il suo nome. Un successo planetario senza eguali che dà lavoro a migliaia di persone e che, se ci pensate bene, in un futuro sempre più globalizzato nella ristorazione potrebbe essere preso ad esempio e portare i grandi fondi di investimento che lavorano nel mondo del cibo a investire e a legare il loro business proprio sulle personalità di spicco in Sala, come Arrigo Cipriani.
Oggi questo discorso può sembrare fantascienza, ma se non si pensa in grande non si andrà mai da nessuna parte, ragion per cui, senza paura, dobbiamo imparare ad essere un po’ tutti Arrigo Cipriani, perché le mode in cucina passano, lo stile, invece, resta. Questa la nostra intervista al Maestro.
Così com’è successo per la cucina e la figura del cuoco, pensa che la televisione possa aiutare a rispolverare un mestiere che nessuno vuole fare più e che ancora oggi viene visto come di serie B?
La televisione e Masterchef sono il prodotto della finzione nella quale è caduta la ristorazione. Il format è stato inventato da uno pseudo chef inglese, Gordon Rumsey, il quale ha giusto il pregio di aver contribuito a distruggere una serie elevata di ristoranti tradizionali in Inghilterra. E i suoi o son falliti o hanno chiuso.
Tempo fa, in un intervista, lei aveva dichiarato che i ristoranti stellati sarebbero spariti. Oggi, con il secondo lockdown, è piuttosto evidente che siano la fascia di ristorazione che più soffre, considerando che il loro lavoro spesso è prettamente serale.
Secondo lei in cosa dovrebbe cambiare o evolvere la ristorazione fine dining dopo questa pandemia?
Da qualche anno i voti alla ristorazione italiana sono stati dati in base alla classificazione delle guide e in particolare della Michelin.
Bisogna tuttavia verificare se la classificazione stellata coincide con l’approvazione dei clienti.
La Michelin è francese e in Francia le stelle hanno avuto molto successo al fine di orientare alla conoscenza del settore.
Premetto che io ho 88 anni e che ho conosciuto le prime stelle. Ecco, tutte quelle che ho frequentato da giovane erano completamente diverse da quelle di oggi.
La prima cosa che uno poteva notare era l’accoglienza dei clienti.
Puntuale, gentile, non supponente; il cibo non si limitava all’offerta di un menu degustazione, scritto per glorificare lo chef, anzi addirittura il menu non c’era affatto, ma tutto quello che veniva servito era legato alla cucina classica francese ed era di una qualità straordinaria.
Ricordo che nel 1957 alla Beaumaniere (già il nome è indicativo di buona accoglienza) dopo un lungo viaggio, di sera, anche un po’ tardi, fui accolto dal proprietario come fossi un re e non fece alcuna difficoltà per l’ora tarda. Ordinai una entrecôte che non era nemmeno sulla carta.
Ebbene, me la ricordo come la migliore che ho mai assaggiato nella mia vita.
La colazione del mattino fu un trionfo di croissant appena sfornati, di marmellate fatte in casa, di uova cucinate da professionisti e così via.
Tutto questo è ora molto difficile da trovare, anche in Francia, penso.
Il menu degustation non è fatto per il cliente, ma per esaltare l’abilità dello chef che va a inventare gusti sconosciuti estranei alla cucina tradizionale, quella che deve la sua forza al rispetto delle ricette tipiche, del gusto comune e che fa parte del DNA classico e della cultura generale. Nella cucina di chef anche famosi gli astrusi accostamenti degli ingredienti non dicono nulla da un punto di vista culturale.
Qual è la sua idea circa le guide gastronomiche?
Le guide gastronomiche sono redatte di solito da amanuensi che hanno imparato il cibo, ma non perché l’hanno vissuto, per esempio, in casa o in una trattoria dove si viene accolti con amore, sollecitudine e voglia di servire bene in modo che il cliente esca soddisfatto e felice.
Lo sa qual è il momento più importante per un cliente?
L’uscita dal ristorante, per cui è vitale che qualcuno gli apra la porta. È il momento in cui il cliente si sente felice perché quel gesto è un invito a ritornare.
Siamo passati da una ristorazione creata da grandi uomini di Sala a una ristorazione fatta di soli chef. È possibile un ritorno alle origini? E se sì, in quale fascia di ristorazione la Sala può tornare a farla da protagonista?
Questa pandemia sta rimettendo ordine tra il falso e il vero.
Il futuro sarà un ritorno alla normalità senza protagonismi, a una ricerca della libertà perduta che non potrà mai essere riempita da falsi portatori della verità.
Torneremo a noi stessi e a capire che il lusso non è la forma, ma l’anima delle cose.
Quali sono i 3 elementi fondamentali che deve avere un grande uomo di Sala?
La semplicità, la professionalità con un giusto approccio e la conoscenza della cultura del proprio Paese.
Ma questa figura non deve dimostrare niente, solo far bene il suo lavoro e pensare che il cliente è colui che gli dà da vivere e non un allievo che vuole imparare o essere sbalordito dal racconto del nulla.
Rispetto al passato, secondo lei quale dev’essere il futuro del servizio in Sala?
La vera scuola di Sala (ed anche quella della cucina) erano i grandi alberghi dove l’unico elemento importante era non certo il cuoco, ma il cliente. Primaria era la cura dell’ospite, della sua libertà, del suo star bene in tutti i sensi.
La Sala ha bisogno di disciplina, di cura, di professionalità. Il servizio si deve svolgere senza che il cliente se ne accorga, senza domande inutili, senza dover sciorinare gli ingredienti dei piatti: il cliente non deve necessariamente venire sbalordito da quello che accade. Il mondo non è cambiato. I clienti sono sempre clienti. Non vanno impressionati o trattati come fossero scolari che vogliono imparare, ma persone che hanno scelto di essere accolte e curate con tutti gli accorgimenti e la professionalità che occorrono a curarne la libertà, senza imposizioni. Ecco, senza imposizioni”.