Wicky Pryian: il più grande interprete della cucina giapponese in Italia è un non giapponese, uno che non nasce nemmeno cuoco ma criminologo, che abbandona i libri e le ostiche profilazioni psicologiche del reo per consacrarsi alla severissima disciplina di un grande maestro, il venerato Kan, che mai prima di allora aveva ammesso alla sua scuola di tatami, coltelli e sangue uno straniero in terra straniera. Un’eccezione dell’eccezione. Wicky Priyan è singalese, la famiglia è da secoli (!) di medici ayurvedici, il mestiere che sarebbe toccato in sorte ereditaria anche a lui, se non avesse coltivato la parte ancestrale materna, che riuniva attorno alla tavola domestica anche i cinque fratelli.
Poi quella famiglia dallo Sri-Lanka si trasferisce in Giappone per il lavoro di papà e la cultura del Sol Levante si trasmette per osmosi; Wicky torna a Colombo per studiare ma alla fine del suo percorso chiede udienza a Kan: il maestro intuisce che il ragazzo possiede la ferrea disciplina richiesta e lo ammette tra i suoi allievi.
Oggi sorride Wicky -occhiali d’oro appoggiati sul naso, grembiule intarsiato da ideogrammi nipponici e aria da professore di filosofia più che da Maestro di sushi- se ripensa a quegli anni: “Il maestro richiedeva quindici-sedici ore di lavoro al giorno e dedizione assoluta, non era pensabile avere tempo libero”.
Tanto per capire, Kan è uscito per la prima volta dal Giappone lo scorso anno a settantasette anni, è volato tre giorni a Milano in Corso Italia per due serate con l’allievo che a questo punto riteniamo essere il prediletto, è rientrato a Tokyo di fretta, “perché maestro non abbandona mai ristorante”.
Una concessione allo svago che un vero maestro di sushi si concede una volta nella vita.
Se Wicky Pryian non fosse stato investito dal suo maestro del titolo di Maestro, Kan non avrebbe mai attraversato gli Oceani per omaggiarlo della sua presenza.
Il percorso per diventare Maestro è ferreo, quasi incomprensibile alle nostre latitudini. Durante i primi due anni gli allievi osservano il Maestro (Shokunin), sono poi ammessi alla cottura del riso e, infine, dopo quattro anni, all’arte del taglio del pesce e alla preparazione del piatto. Le donne fino a qualche tempo fa non erano ammesse, si riteneva che avessero una temperatura corporea incompatibile con il taglio del pesce. Oggi le cose stanno lentamente cambiando anche nella terra dello shogunato, qualche giovane ragazza si sta cimentando con riso e coltelli, il mondo va avanti anche lì.
La storia di Wicky Pryian è variegata come la cromìa dei suoi piatti: a Milano è diventato famoso per il roll “arc-en-ciel” (arcobaleno), ha infuso nella mistica shintoista giapponese il colore delle balinesi dei giorni di festa, dopo aver conquistato la padronanza da Maestro è volato in giro per il mondo a esplorare la creatività. Da Bali all’Australia, dall’Inghilterra alla seconda patria, Milano, dove ha iniziato da Zero (non è solo un gioco di parole, ma all’epoca il ristorante giappo-fusion più “trendy” della città) poi in via San Calocero e infine nella sede di Corso Italia, dove la moglie Nozomi accoglie gli ospiti in un ambiente sobrio e ricercato, la luna dipinta e la cascata all’ingresso del ristorante infondono meditazioni monacali e una serenità che fa a pugni con i ritmi frenetici e le mille luci della città.
“Cerchiamo di resistere ai provvedimenti imposti dal Governo, apriamo anche alla domenica fino a che sarà possibile”, dice Wicky Pryian, mentre Nozomi spruzza del disinfettante persino sotto alle suole delle scarpe. “Durante il primo lock-down ho rafforzato l’asporto, aumentato l’offerta dei bento-box (l’organizzata schiscetta del giapponese fuori casa, ndr), studiato alcuni piatti più semplici per venire incontro alla domanda del pubblico. Ha funzionato, quest’offerta rimarrà ancora a lungo, ma non è sufficiente a coprire le spese”.
Che dire? La sua situazione è simile a quella di migliaia di chef-patron in giro per l’Italia, ma in centro a Milano, quando languono i turisti, i viaggi e le cene d’affari, la situazione è particolarmente complicata.
Tuttavia, mi racconta, la prima pausa è stata fonte di grande riflessione. La vita di un cuoco moderno è come un interruttore acceso ventiquattr’ore su ventiquattro, non c’è mai un attimo di quiete, sono quattordici ore ininterrotte in cui un pensiero, un’idea, si materializzano tra un servizio e l’altro. Il silenzio della Milano deserta di marzo e di aprile ha suggerito a Wicky di approfondire il legame con la cucina italiana, di pescare a piene mani nel patrimonio dello Stivale per incrementare l’idea di cucina “fusion” che, altrimenti, è un calderone talmente ampio da essere tutto e niente al tempo stesso. Nel recente passato aveva stupito con anguilla giapponese, melanzana perlina, baccalà e stracciatella di Martinafranca, un volo Tokyo-Salento che non è più uscito dal percorso degustazione, ma che pur era un riuscito collage culturale. Oggi mi ha stupita ancora di più con Udon al ragù di pesce Sanpietro scottato nel sakè e uova di Carapo, il pesce coltello che emette scariche elettriche per muoversi anche nei momenti più oscuri. Un piatto di grande gola, perfetto, che nella sua semplicità mette a sedere molti maestri di cucina marinara del nostro Paese.
La sosta è stata propizia anche per la pubblicazione del suo primo libro, “Crudo, cotto e marinato” (vedi box), che spiega con dovizia di particolari la preparazione delle salse per i suoi ormai famosissimi sashimi e carpacci: la ponzu con sake e mirin, la tosazu con sambai e alga kombu, la unagi per l’anguilla, con tutte le debite quantità. In questo numero de “La Madia Travelfood” Wicky condivide ben tre ricette dal suo libro, tra cui la sua personale versione del risotto allo zafferano che è l’omaggio alla città che l’ha adottato. In ogni caso, è un’opera da scoprire per comprendere l’anima fusion dello chef singalese: dalla marinatura per il merluzzo nero, alla tempura per il baccalà, ai segreti per una perfetta anguilla kabayashi o unagi, ai tocchi extranipponici di jalapeno e cipolla rossa nelle alici marinate, alle variazioni di tataki della palamita o del bonito che ci traghettano nelle isole più lontane del Pacifico.
Per chi ancora non conosce Wicky Pryian, tuttavia, resta imperdibile la selezione di nigiri dedicati al Maestro Kan: un set di otto pezzi (tonno, salmone, angus, gambero siciliano, ricciola, branzino, baccalà, scampo) serviti ognuno con un diverso topping di pesto di capperi, cipollotti, tartufo nero, jalapeno e caviale di salmone.
Un vero e proprio sushi da maestro che costituisce solo una piccola parte della Wicky’s Experience, che anche all’estero ci invidiano. Non a torto.
Wicky’s Innovative
Japanese Cuisine
Corso Italia, 6 – Milano