
Il luogo è di quelli che tolgono il fiato: un angolo di paradiso che sale come un incantesimo dai ciottoli quieti del lago di Garda. Bucolico, irenico, struggente. Probabilmente il ristorante più bello d’Italia, di fatto il migliore small luxury hotel del mondo (il premio risale al 2005). Ma il lusso e il paesaggio non bastano a spiegare il fascino di una geografia emozionale: edificata alla fine dell’800 dalla famiglia Feltrinelli, la villa liberty traspira l’aura della Decadenza, finto gotico, nostalgie e morboso estetismo.
Qui scelse di risiedere Mussolini durante la febbrile reggenza della repubblica di Salò, a qualche villa di distanza da Claretta Petacci. E qui un giovane Giangiacomo Feltrinelli ha tessuto le tele appiccicose della sua ribellione a quel mondo borghese, che solo la bellezza può scalfire; basta guardarsi un po’ intorno. Già, lo stesso Giangiacomo che avrebbe fortemente voluto la pubblicazione del primo ricettario da parte di una casa editrice paludata: quello di Nino Bergese, il cuoco nelle cui cucine, si dice, intratteneva una tavola ad uso personale. La sua unica rivoluzione vittoriosa: l’alta cucina era nell’aria. La prolusione è di rigore per comprendere le aspettative che un genius loci ingombrante può ingenerare nel commensale. C’è la natura, c’è la storia, c’è una Stimmug particolare. Insomma c’è una bellezza che aspetta di essere traslata in materialismo gastronomico dal cuoco, avrebbe detto Giangiacomo utilizzando un lessico marxiano… Rivoluzionario come Giangiacomo? Decadente come la villa? Serafico e profondo come il lago? Irto e scabroso come le montagne? Il trentacinquenne Stefano Baiocco è l’uomo giusto al posto giusto: un giovane Carlo Cracco con la chioma riccioluta, il grembiule immacolato e un romanzo di formazione impressionante considerata l’età e la modestia.
Sul suo CV figurano tutti i migliori cuochi del mondo o quasi, in una trasfusione di saperi confluita in quattro anni di onorato servizio in villa. Dove piano piano ha allestito il suo erbario: un hortus conclusus anch’esso senza pari in Italia, che conta un centinaio di fiori ed erbe fra la limonaia, la serra e gli angoli di “giardino incantato” punteggiati di cartelli in latinorum: impatiens, oxalis, dionisios… La stella Michelin non poteva mancare al termine di un simile vialetto tassonomico.
Parlaci dei tuoi maestri.
Dopo l’alberghiero di Ancona, sono stato da Pinchiorri e mi sono un po’ “sgrezzato”, quando Cracco era appena partito; ma non mi bastava e ho deciso di trasmigrare a Parigi: ci sono rimasto tre anni fra Ducasse e Pierre Gagnaire. Ducasse è stato un po’ il militare; ai tempi c’era Piège, che mi ha bastonato ben bene, ma a distanza gli devo dir grazie perché mi è servito, e molto. Su Gagnaire posso raccontare un aneddoto. Ricordo che non mancava un servizio, si aggirava fra le partite chiedendo “cos’è questo?” e lo aggiungeva, componendo i piatti ogni volta in modo nuovo. Direi che dipingeva più che cucinare; ad esempio è stato il primo a fare uscire le salse dal piatto: geniale. Una sera mi chiedono il poisson bleu e io speravo che non arrivasse; invece eccolo che vien su dalla scala a chiocciola mangiando la sua mela. Era un piatto con 100mila cose diverse che avevo fotografato mentalmente, ma lui ogni volta me lo scompaginava. Quindi lui appoggia la sua mela, va in giro come sempre e poi pam, si fissa sul suo frutto, lo taglia a julienne e lo mette sullo sgombro. Io ho preso questa mela morsicata e l’ho infilata in frigorifero… Tornato da Parigi mi hanno chiamato a Palazzo Sasso con Pino Lavarra, per fare il secondo tre anni a Ravello. È stata una bella esperienza e devo dire che mi sentivo appagato: era il 2000 e di Adrià si era appena cominciato a parlare. Pensavo che la torta fosse pronta e invece è saltato fuori il guastafeste. E io nei posti giusti non mi accontento di andarci a mangiare: ci devo lavorare, così sono partito di nuovo, per mettere la ciliegina sulla torta. Finita l’esperienza al Bulli, nel 2004 mi hanno chiamato a Villa Feltrinelli, ma essendo stagionale d’inverno ne approfitto per fare altri stages. Ogni anno scelgo un ristorante diverso: nell’ordine Joan Roca, Andoni Luis Aduriz, Pascal Barbot e Dani Garcia, il primo che abbia usato l’azoto liquido in Spagna.
Quale di questi mostri sacri ti ha influenzato di più?
Non saprei dire, perché tutti mi hanno “siringato” qualcosa in parti uguali. Ducasse mi ha trasmesso la professione; Gagnaire genio e sregolatezza, perché se devo tirar fuori qualcosa all’ultimo momento, ecco accendersi il lampo. Adrià è stato diverso: prima che arrivasse lui un cuoco poteva essere creativo quanto voleva, ma un piccione restava sempre un piccione, uno spaghetto uno spaghetto. Lui invece ha sovvertito tutto quanto. Ma io non uso molto le sue tecniche, solo qualche cosa qua e là, ad esempio la sferificazione degli gnocchi di patate al pomodoro.
Da Andoni ho imparato soprattutto come tenere le erbe per la linea: mi ha fatto vedere come le tagliava e le riponeva nei barattolini, porzione per porzione, un lavoro enorme che non finisce mai.
Ma da questi maestri sono andato soprattutto per differenziarmi e non assomigliare a nessuno. Più cose vedo, più spunti mi arrivano, più mi sento libero di fare la mia cucina.
Come si è evoluta qui a Villa Feltrinelli?
Quattro anni fa sono partito da zero: avevo mille cose a cui pensare, perché tutto era nuovo e dovevo montare la brigata. Poi piano piano abbiamo allestito l’erbario e messo in moto il sistema. I vasi vuoti nella serra, per esempio, sono stati appena seminati, perché abbiamo portato nuove varietà da Hong Kong; a innaffiarle ci pensa il giardiniere, mentre io o il mio secondo raccogliamo le foglie, le laviamo e le riponiamo dentro le vaschette dei frutti di bosco. Finora siamo stati abbastanza concentrati sulla clientela dell’albergo, ma adesso stiamo cercando di incrementare l’autonomia del ristorante. Sono 13 addetti per 30 coperti, una delle proporzioni più elevate d’Italia.
Nel capitolo “materie prime” come ti muovi?
Qui riesco a reperire un po’ tutto, da Brescia o da Milano. Fra i pesci di acqua dolce prediligo il coregone, che non è troppo fangoso. L’agnello sambucano lo compro in Piemonte, i maialini in Francia, perché in Italia non ne trovo di così piccoli; poi c’è l’olio del Garda ovviamente. Parte delle erbe è spontanea: in stagione partiamo nei campi con le bottiglie di plastica piene di ghiaccio a raccoglierle. La mia è una passione da collezionista.
Scorrendo il menù si ha l’impressione di una coesistenza stilistica fra diverse influenze, classicismo e avanguardia, come spesso accade nelle cucine dei trentenni. C’è un piatto in carta che tu consideri più rappresentativo degli altri?
Sicuramente l’insalata di erbe, fiori e germogli con la pasta brick, gli champignon e la segatura di patate. Ne fanno parte mediamente 90 elementi stagionali, che si assemblano ogni volta a modo loro con uno spirito un po’ “anarchico”. È la mia cucina a Villa Feltrinelli, in sintonia con la location e la clientela. Se dovessi lavorare in centro a Milano, non potrei coltivare né le erbe né la passione.
Quindi andrei un po’ in crisi, onestamente.
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