Quella che sto per raccontarvi è una delle storie più affascinati di tutta la ristorazione italiana, perché è la storia del San Domenico di Imola, la vera culla della cucina borghese italiana.
Esistono luoghi senza tempo, in grado di regalare sensazioni straordinarie: qui l’orologio si ferma, la pioggia si fa più leggera, il sole splende e determina l’umore. Al San Domenico non si parla, si sussurra. Al San Domenico si entra in punta di piedi per rispetto, per soggezione, per amore di una cucina così lontana, in alcuni casi, dalla contemporaneità, ma così vicina ai nostri desideri che merita di essere affrontata più volte nella vita, con costanza, per un continuo scambio tra presente e passato. Ecco, forse al San Domenico non esiste niente di più contemporaneo del passato.
Il San Domenico viene fondato nel lontano 7 marzo 1970 da Gianluigi Morini, l’ideatore e la mente di questo ristorante. Oltre a Morini figurano nella storia anche Romano Visani, lo chef che, dopo il decollo nel ’70 e le conferme nel ’73, esce dalla società nell’ottobre ’74. Il perché è oscuro: non vi sono notizie al riguardo, tutto rimane dentro le mura del locale. Oltre a Morini e Visani esiste anche Roberto Rocchi, un altro noto personaggio imolese, uscito di scena nel ‘74. Ma torniamo a chi il San Domenico invece l’ha concepito, perché tutto nasce appunto dalla mente fertile e creativa di Gianluigi Morini, estroverso bon vivant, amante del bello, uomo di una precisione maniacale.
Morini non era sicuramente un ragioniere, anche se il padre insiste su questa strada facendogli completare proprio questi studi. Ovviamente, come tanti altri piccoli geni che vengono spinti su binari diversi, Gianluigi continua a coltivare la propensione naturale per l’arte mediante attività teatrali da dilettante e una fuga a Roma, dove lavora per qualche tempo al Centro Sperimentale di Cinematografia.
Il cinema resta uno dei suoi hobby preferiti, assieme a quello della cucina.
Incomincia così a documentarsi sui migliori ristoranti d’Italia e di Francia e matura la convinzione di costruire un proprio locale “su misura”.
La sua idea si concretizza verso la fine degli anni ‘60 nei locali della casa paterna: realizza un ristorante di soli undici tavoli, cosa all’epoca molto insolita in Italia.
Quelli furono gli anni del miracolo economico italiano e non poteva esserci momento storico più indicato per avvicinarsi al concetto di cucina che Morini aveva in mente.
La genialità di Morini e l’amore per il bello prendono il sopravvento anche grazie alla stretta collaborazione con l’amico di sempre: l’ingegnere Sanzio Cremonini, anche lui esteta e grande arredatore.
Con lui le pareti vengono ricoperte di tela di lino; il tessuto decorato William Morris dei soffitti, proveniente direttamente dall’Inghilterra, ricopre anche i paralumi appesi su ciascun tavolo. Arrivano le tovaglie di lino pesante color fucsia, i bicchieri di cristallo Riedel (furono tra i primi ad utilizzarli), l’argenteria di Buccellati o importata direttamente dal Regno Unito, piatti e ceramiche commissionati a Richard Ginori, candelieri imponenti, posate Sambonet ed i grandi vasi colmi ogni giorno di fiori freschi; le sedie e gli arredamenti vengono acquistate da Thonet, Frau e Cassina mentre alle pareti iniziano ad essere esposte opere di grande pregio e valore come Maccari, Angeli, Burri, D’Orazio, Schifano, Sartelli, Gottarelli e tanti altri.
Ma come può un ristorante come il San Domenico non investire nelle cantine? Il vino è pur sempre, nell’immaginario collettivo, l’altra faccia del ristorante. Le cantine del ristorante San Domenico sono quelle costruite oltre cinquecento anni fa dai frati domenicani e in breve tempo diventano tra le più belle in Italia: le nicchie vengono riempite con veri e propri tesori dell’enologia nazionale e internazionale, migliaia di bottiglie di annate rare e preziose, i più grandi cru d’Italia e di Francia, ma anche distillati di pregio, in grado di stupire chiunque, anche i più grandi intenditori.
E i camerieri? Tutti i camerieri erano in abito confezionato del sarto Consolini di Bologna, mentre le cameriere avevano abito di seta nero, crestina, grembiule bianco e giarrettiera. Ogni giorno ed ogni ora aveva una sua musica al San Domenico, commissionata ad un grande artista dei tempi: Piero Buscaroli, critico musicale. Era il 1972. Il successo è immediato: la guida Michelin recensisce il San Domenico nel 1973 e nel 1975 arriva la prima stella. Eppure questo buon inizio a Morini non basta, secondo lui manca qualcosa, un tassello fondamentale che deve essere identificato subito, nel più breve tempo possibile perché lui non vuole perdere tempo. A questo punto della nostra storia arriva la svolta. Morini chiama un amico, ma non un amico qualunque, bensì il più grande scrittore e critico enogastronomico di quei tempi: Luigi Veronelli. Si confronta con lui, gli chiede cosa manca al suo ristorante per fare il salto di qualità definitivo. Siamo nel 1972 e Veronelli fa un solo nome: Nino Bergese.
Ma chi è Nino Bergese?
Giacomo (Nino) Bergese è un grande cuoco che vanta una carriera di prestigio nelle cucine di re e potenti italiani e stranieri.
Nasce a Saluzzo nel 1904 e diventa cuoco a soli 13 anni. Nel 1917 entra in casa del conte Bonvicino con l’incarico di affiancare lo chef Giovanni Bastone, futuro cuoco della famiglia Agnelli. Durante questo periodo tiene un diario in cui annota le ricette che riesce a carpire e che chiamerà sempre “il mio unico tesoro”.
A sedici anni è già aiuto cuoco presso il Conte Costa Carrù della Trinità e ha ospiti famosi: dai sovrani d’Italia a re Fuad d’Egitto, dal duca d’Aosta al duca di Genova. Nel 1926, a soli 22 anni, è primo cuoco dai Wild, una ricca famiglia di cotonieri. Da allora in poi è tutto un susseguirsi di casate aristocratiche e palazzi borghesi e solo dopo la guerra Bergese abbandona le grandi famiglie per ritirarsi a Genova dove, in Vico Indoratori, un antico carrugio del centro storico, apre il ristorante “La santa”, di cui è proprietario e cuoco. Qui conquista le due stelle della guida Michelin, il massimo riconoscimento, allora, in Italia.
Il ristorante diventa uno dei punti di ritrovo della buona cucina, frequentato da personaggi del cinema, della cultura, dell’arte e del bel mondo, oltre che da re e regine.
Passa il tempo e Bergese non ha nessuna intenzione di andare ad Imola: ormai si è ritirato, è in pensione e non vuole più sentire parlare nè di cucina, nè di collaborazioni. Ha chiuso. La cosa dunque si complica.
Morini continua ad insistere ma nulla si sblocca. Solo una lettera scritta di pugno da lui, su suggerimento di Veronelli, fa breccia nel cuore e nell’animo di Bergese che decide di recarsi ad Imola non solo per vedere il locale, ma per restarci… quasi in silenzio inizia una spledida collaborazione che durerà fino al 1977.
Bergese imposta la cucina del San Domenico con lo stile delle cucine delle grandi case in cui aveva lavorato, scegliendo sempre gli ingredienti migliori e preparando “in casa” tutto, dal pane ai dolci. Uno stile unico ed indelebile per il San Domenico, che ottiene nel 1977 la seconda stella che porterà con sé per 40 anni proprio quest’anno.
Ma va detto che le cose non andarono proprio così. Dal 1990 al 1998 il San Domenico perde la seconda stella Michelin. Cosa succede? Perché la critica gastronomica più importante del mondo fa un passo indietro sulla valutazione di un ristorante considerato un tempio della cucina italiana? Esistono ancora oggi tanti punti di vista, tante ipotesi, ma la più accreditata è senza dubbio relativa all’esperienza del San Domenico a New York. Ma questa è un’altra parte della storia che racconteremo tra poco. Adesso dobbiamo occuparci di quel Valentino che era diventato ai tempi il braccio destro e l’esecutore delle idee di Bergese.
Valentino Marcattilii (a destra nella foto con Nino Bergese e il fratello Natale) nasce a Mosciano Sant’Angelo, in provincia di Teramo, nel 1954 e si trasferisce a Imola con la famiglia nel 1960. Arriva al San Domenico nel 1972, un anno prima di Bergese e alla giovane età di 16 anni. Con Bergese collabora per ben 7 anni fino alla morte del suo maestro.
Da qui, dalla morte di Bergese, Valentino sente l’esigenza di un confronto sostanziale con molte grandi cucine, soprattutto francesi. Inizia da questo momento una serie di stages presso i più rinomati ristoranti di Francia: nel 1976 l’Auberge de l’Ile, 1977 Troisgros, 1978 Madame Point – La Pyramide, nel 1979 Roger Vergé, come dire il meglio dei fornelli di Francia. Al suo ritorno assume la direzione delle cucine del ristorante San Domenico del quale ora è anche comproprietario. Introduce, per la prima volta nella ristorazione italiana, quella idea di “cucina di casa” che fino ad allora era stata custodita entro le spesse mura delle dimore patrizie. Iniziano così le consulenze e le collaborazioni internazionali presso il Monterey Plaza (California), il ristorante Donatello a San Francisco, il ristorante la Main à la Pâte di Parigi, il ristorante del Palm Bay Hotel a Miami e il Conrad Hilton di Hong Kong, insomma affina perfettamente la sua tecnica e acquisisce un’esperienza quasi unica.
Ma la cucina è la cucina ed un ristorante come il San Domenico ha bisogno della sala, soprattutto un ristorante come quello. E proprio qui entra in gioco un altro personaggio chiave: Natale Marcattilii, fratello di Valentino, da sempre il maître del San Domenico dove fa la sua prima apparizione nel lontano 8 marzo del 1970. Cos’è un maître di sala? È colui che dirige lo staff del servizio, accoglie i clienti e li consiglia, come se fosse il vero padrone di casa; è l’occhio lungo di casa, colui che decide i tempi e rende l’ambiente caldo ed efficiente.
Dice Natale: “I clienti che vengono da noi vogliono assolutamente stare bene. Bisogna necessariamente seguirli, fin dal loro arrivo, per tutto il tempo in cui rimangono al ristorante, con attenzione e serietà ma senza mai divenire invadenti e opprimenti. Loro sono a casa nostra, li accogliamo veramente come ospiti e non come clienti: la cosa più importante è che si sentano perfettamente a loro agio. L’ospite che si sente un estraneo non tornerà più a trovarci.”
Insomma, il San Domenico non sarebbe il San Domenico senza Natale e su questo non ci piove, tanto che ancora oggi il primo ad aprire la porta e l’ultimo a chiuderla è proprio lui.
La storia del San Domenico è però così incredibile e unica che dobbiamo tornare ancora indietro nel tempo e raccontare quello che successe a New York.
Esiste un persona che si chiama Tony May (in alto a sinistra), personaggio chiave per il San Domenico di New York. Tony May nasce a Torre del Greco il 6 dicembre 1937 e all’età di 26 anni, nel 1963, decide di andarsene in America.
Sbarcato a Manhattan, inizia a lavorare come cameriere al Rainbow Room, uno dei locali storici più conosciuti, situato nel Rockefeller Center. Nel marzo del ‘64, Tony è già maitre di sala e, quattro anni dopo, direttore del ristorante. Passano dieci anni e ne rileva addirittura la proprietà. Trasforma le sale al 65° piano in un posto leggendario, ripristina una splendida dance room e apre un night che ospita i maggiori jazzisti americani. Nel 1986 apre un secondo locale, il Palio, e due anni dopo, appunto, il San Domenico. Il San Domenico nasce nel giugno del 1988 al 240 di Central South Park e Valentino assume la direzione delle cucine come excutive chef con l’aiuto dello chef Paul Bartolotta.
“Wine Spectator” e “Usa Today” lo proclamano tra i 10 migliori ristoranti italiani degli Stati Uniti e tra i 25 migliori ristoranti in America, tanto che a un mese dall´inaugurazione il “New York Times” gli assegna le “tre stelle”, riconoscimento mai dato prima a un ristorante italiano. Nello stesso anno la rivista “Exquire Magazine” lo definì “the best of the year”, il miglior ristorante italiano negli Stati Uniti. Insomma, Tony May si innamora del San Domenico in Italia. È ricco, ambizioso, e lo vuole anche negli Stati Uniti. Lo vuole riprodurre. Tony May non vuole aprire il San Domenico a New York, vuole “il” San Domenico a New York. Cremonini, il creatore dello stile del locale, non viaggia però in aereo e non vuole andare assolutamente a visitare le mura che ospiteranno il ristorante.
Ma Tony May vuole lui e soltanto lui.
Non potendo seguire i lavori direttamente a New York decide di ricreare in un capannone industriale, come in un set cinematografico, totalmente e fedelmente il locale di Imola, utilizzando tutti artigiani italiani per poi impacchettare il tutto e spedire negli Stati Uniti. La cosa ha quasi dell’incredibile. Ma il successo è assoluto. Il jet set newyorkese inzia a frequentarlo assiduamente: si chiamano Ronald Reagan, Michael Douglas, Anthony Queen, Luciano Pavarotti, Woody Allen, Harrison Ford, Liza Minelli, Baryšnikov, Nurayew e tantissimi altri. Anche il mafioso John Gotti lo prende come punto di riferimento. Purtroppo la spola tra Imola e New York – anche perché ai tempi i cuochi non eranno, come oggi, sempre in movimento – non era considerata corretta dalle guide perché assentarsi dalle cucine voleva dire diminuirne la qualità. Dunque l’esperienza a New York crea una parentesi poco felice per il San Domenico quando la Michelin, nei cinque anni in cui Valentino curò la cucina a New York (ovviamente a periodi) decise di togliere la seconda stella che venne immediatamente recuperata quando l’avventura newyorkese terminò definitivamente.
Ma perché terminò? Perché tutte le cose belle prima o poi finiscono, perché non sono eterne e perché ci piace pensare così anche se, ovviamente, sappiamo che alcuni problemi erano sorti, di gelosia soprattutto. Ma noi siamo romantici e vogliamo credere, appunto, che tutto abbia un inizio ed una fine. Morini decide di ritirarsi, stanco anche di una vita sempre in movimento. Nel 2012 lascia tutto in mano a Valentino e Natale. Valentino, però, non lavora più in cucina da solo e neanche Natale apre e chiude le porte da solo. C’è una nuova generazione che sta continuando nella stessa direzione.
Valentino e Natale hanno trovato un degno erede per il prossimo futuro: il nipote Massimiliano Mascia.
Il suo percorso inizia a soli 14 anni: per 5 anni, fino al diploma alberghiero, alterna la presenza in cucina con gli studi e, terminata la scuola, inizia i suoi viaggi con lo scopo di ampliare le proprie conoscenze su materie prime, tecniche e sapori.
La formazione è tra le migliori: scuola alberghiera “Scappi” a Castel San Pietro Terme dal 1997 al 2002, nel 2003 vola a New York da Michael White, nel 2004 è al Mulinazzo da Nino Graziano, nel 2005 a Viareggio al ristorante Romano, nel 2006 Vissani, nel 2007 Bastide Saint Antoine a Grasse dallo chef Jacques Chibois e nel 2009 a Parigi, al Plaza Athenee presso Alain Ducasse.
Oggi Massimiliano rappresenta la nuova generazione del ristorante nonché un segno di continuità nell’innovare e nel rinnovarsi, conservando allo stesso tempo solide radici nella tradizione gastronomica italiana.
Dice Massimiliano: “Negli Stati Uniti ho imparato a lavorare a ritmi sempre elevati e ho compreso l’importanza dell’organizzazione del lavoro. In Francia ho approfondito la tecnica di cucina e ho percepito il grande valore della storia e della cultura gastronomica.
In Italia ho studiato attentamente la materia prima, una materia prima che non ha eguali nel mondo per livello qualitativo.
La nostra è una cucina del territorio – intesa soprattutto come ricerca delle migliori materie prime ottenute nel loro ambiente ideale – in continua evoluzione, con nuove tecniche al servizio della tradizione. Per me il rispetto della materia prima e della stagionalità sono elementi essenziali e costituiscono la base di partenza nel processo di elaborazione di ogni piatto”.
Oggi il San Domenico è ancora uno dei grandi simboli dell’alta cucina italiana , un tempio ancora solido.
Piatti come il pasticcio di fegato, l’uovo in raviolo, la sella di vitello “Nino Bergese” e la torta fiorentina saranno per sempre simboli di un’Italia gastronomica che vanta una lunga storia. Al San Domenico sono passati e si sono formati tanti professionisti oggi famosi come Perbellini, Michael White, Paul Bartolotta, Danilo Aissa, Masako Okamoto, oltre al maître di sala Renato Rizzardi.
La cucina, come il vino è destinata a seguire cicli temporali, ma questo tipo di cucina, ora con l’avvento di Massimiliano Mascia, non tramonterà mai. La dissoluzione della cucina borghese non è ipotizzabile, anzi ci piace pensare che possa evolversi senza snaturare se stessa.
Oggi entrare al San Domenico e trovare Valentino, Natale e Massimiliano pronti a ripetere quei piatti che hanno fatto e faranno anche in futuro la storia di un’Italia che può sfidare ai fornelli chiunque, significa perpetuare un sogno possibile. Perché il San Domenico è un luogo dove il tempo si ferma e non vorresti ripartisse più.
Valentino e Natale hanno trovato un degno erede per il prossimo futuro: il nipote Massimiliano Mascia.
Il suo percorso inizia a soli 14 anni: per 5 anni, fino al diploma alberghiero, alterna la presenza in cucina con gli studi e, terminata la scuola, inizia i suoi viaggi con lo scopo di ampliare le proprie conoscenze su materie prime, tecniche e sapori.
La formazione è tra le migliori: scuola alberghiera “Scappi” a Castel San Pietro Terme dal 1997 al 2002, nel 2003 vola a New York da Michael White, nel 2004 è al Mulinazzo da Nino Graziano, nel 2005 a Viareggio al ristorante Romano, nel 2006 Vissani, nel 2007 Bastide Saint Antoine a Grasse dallo chef Jacques Chibois e nel 2009 a Parigi, al Plaza Athenee presso Alain Ducasse.
Oggi Massimiliano rappresenta la nuova generazione del ristorante nonché un segno di continuità nell’innovare e nel rinnovarsi, conservando allo stesso tempo solide radici nella tradizione gastronomica italiana.
Dice Massimiliano: “Negli Stati Uniti ho imparato a lavorare a ritmi sempre elevati e ho compreso l’importanza dell’organizzazione del lavoro. In Francia ho approfondito la tecnica di cucina e ho percepito il grande valore della storia e della cultura gastronomica.
In Italia ho studiato attentamente la materia prima, una materia prima che non ha eguali nel mondo per livello qualitativo.
La nostra è una cucina del territorio – intesa soprattutto come ricerca delle migliori materie prime ottenute nel loro ambiente ideale – in continua evoluzione, con nuove tecniche al servizio della tradizione. Per me il rispetto della materia prima e della stagionalità sono elementi essenziali e costituiscono la base di partenza nel processo di elaborazione di ogni piatto”.
Oggi il San Domenico è ancora uno dei grandi simboli dell’alta cucina italiana , un tempio ancora solido.
Piatti come il pasticcio di fegato, l’uovo in raviolo, la sella di vitello “Nino Bergese” e la torta fiorentina saranno per sempre simboli di un’Italia gastronomica che vanta una lunga storia. Al San Domenico sono passati e si sono formati tanti professionisti oggi famosi come Perbellini, Michael White, Paul Bartolotta, Danilo Aissa, Masako Okamoto, oltre al maître di sala Renato Rizzardi.
La cucina, come il vino è destinata a seguire cicli temporali, ma questo tipo di cucina, ora con l’avvento di Massimiliano Mascia, non tramonterà mai. La dissoluzione della cucina borghese non è ipotizzabile, anzi ci piace pensare che possa evolversi senza snaturare se stessa.
Oggi entrare al San Domenico e trovare Valentino, Natale e Massimiliano pronti a ripetere quei piatti che hanno fatto e faranno anche in futuro la storia di un’Italia che può sfidare ai fornelli chiunque, significa perpetuare un sogno possibile. Perché il San Domenico è un luogo dove il tempo si ferma e non vorresti ripartisse più.
Valentino e Natale hanno trovato un degno erede per il prossimo futuro: il nipote Massimiliano Mascia.
Il suo percorso inizia a soli 14 anni: per 5 anni, fino al diploma alberghiero, alterna la presenza in cucina con gli studi e, terminata la scuola, inizia i suoi viaggi con lo scopo di ampliare le proprie conoscenze su materie prime, tecniche e sapori.
La formazione è tra le migliori: scuola alberghiera “Scappi” a Castel San Pietro Terme dal 1997 al 2002, nel 2003 vola a New York da Michael White, nel 2004 è al Mulinazzo da Nino Graziano, nel 2005 a Viareggio al ristorante Romano, nel 2006 Vissani, nel 2007 Bastide Saint Antoine a Grasse dallo chef Jacques Chibois e nel 2009 a Parigi, al Plaza Athenee presso Alain Ducasse.
Oggi Massimiliano rappresenta la nuova generazione del ristorante nonché un segno di continuità nell’innovare e nel rinnovarsi, conservando allo stesso tempo solide radici nella tradizione gastronomica italiana.
Dice Massimiliano: “Negli Stati Uniti ho imparato a lavorare a ritmi sempre elevati e ho compreso l’importanza dell’organizzazione del lavoro. In Francia ho approfondito la tecnica di cucina e ho percepito il grande valore della storia e della cultura gastronomica.
In Italia ho studiato attentamente la materia prima, una materia prima che non ha eguali nel mondo per livello qualitativo.
La nostra è una cucina del territorio – intesa soprattutto come ricerca delle migliori materie prime ottenute nel loro ambiente ideale – in continua evoluzione, con nuove tecniche al servizio della tradizione. Per me il rispetto della materia prima e della stagionalità sono elementi essenziali e costituiscono la base di partenza nel processo di elaborazione di ogni piatto”.
Oggi il San Domenico è ancora uno dei grandi simboli dell’alta cucina italiana , un tempio ancora solido.
Piatti come il pasticcio di fegato, l’uovo in raviolo, la sella di vitello “Nino Bergese” e la torta fiorentina saranno per sempre simboli di un’Italia gastronomica che vanta una lunga storia. Al San Domenico sono passati e si sono formati tanti professionisti oggi famosi come Perbellini, Michael White, Paul Bartolotta, Danilo Aissa, Masako Okamoto, oltre al maître di sala Renato Rizzardi.
La cucina, come il vino è destinata a seguire cicli temporali, ma questo tipo di cucina, ora con l’avvento di Massimiliano Mascia, non tramonterà mai. La dissoluzione della cucina borghese non è ipotizzabile, anzi ci piace pensare che possa evolversi senza snaturare se stessa.
Oggi entrare al San Domenico e trovare Valentino, Natale e Massimiliano pronti a ripetere quei piatti che hanno fatto e faranno anche in futuro la storia di un’Italia che può sfidare ai fornelli chiunque, significa perpetuare un sogno possibile. Perché il San Domenico è un luogo dove il tempo si ferma e non vorresti ripartisse più.