Nella solidità di un grande passato costruisce un presente ricco di fascino sensuale
Una cosa sono i figli, un’altra gli eredi: della magnifica epopea di Peppino e Mirella Cantarelli avanza più di qualche briciola su un tovagliato di Fiandra in bianco e nero. Per capirlo basta recarsi al Merlo di Camaiore, ristorante oramai leggendario che affaccia la sua sobria porticina sulla strada provinciale, accanto alla vetrina della gastronomia da cui è sbucato fuori per partenogenesi. Prosciutti di Parma appesi sopra un lungo bancone vetrato carico di delikatessen non solo toscane, non solo italiane. E forme di parmigiano reggiano scelte direttamente ai caseifici, come le cosce dei maiali, fatte poi maturare conformemente ai desiderata della casa. Marchiate infine con il nome della gastronomia, Claudio, perché è da una conoscenza maniacale del prodotto che è cominciata questa storia italiana, ormai giunta alla sua terza generazione ed impennatasi nel twist della ristorazione come il pallone calciato in goal dal fuoriclasse.
Modello Cantarelli
Veniva sì da una famiglia di ristoratori, nonno Guido, perché il primo Merlo aveva spiccato il volo dal braccio di suo padre, che durante il fascismo aveva mandato avanti una trattoria consacrata alle specialità toscane come trippa e baccalà. Battezzata secondo il soprannome della gens Torcigliani (Merlini) e distrutta dai bombardamenti, ahimè. Il figlio dal canto suo si era dato alla falegnameria, finché una scheggia non gli aveva portato via, insieme a un occhio, la pialla e lo scalpello. Da quel momento si sarebbe occupato del bar con alimentari nella piazza del paese, trasformato dalla passione per le cose buone nella piccola San Sebastian della Versilia. Fu lui, per fare solo un esempio, a portare per primo il caffè Illy a Camaiore. E dopo di lui il figlio Claudio, classe 1937, a superare d’impeto un’altra barriera: quella della cucina, costruita dal nulla e affidata alla moglie Bruna, arzdora di quelle di una volta, cresciuta a Correggio in una famiglia numerosa, dove l’approntamento dei pasti era un’attività semiprofessionale. Dalle sue mani uscivano 4 o 5 piatti emiliani, soprattutto paste fresche, le stesse che oggi si alternano alle pietanze di Angelo in carta. Per modello Cantarelli, conosciuto da Claudio durante le sue escapades gourmandes nei migliori ristoranti italiani, punto di riferimento anche per la composizione degli impasti. Cosicché negli anni ’70, per lasciare spazio ai tavolini e all’enoteca, la gastronomia traslocò al piano terra della palazzina contigua, appositamente costruita.
Nel frattempo Angelo intrideva le sue fantasie negli effluvi di cucina. Al punto da non dubitare mai di una vocazione quasi religiosa per la gastronomia. L’azienda agricola di famiglia lo accoglieva nei mesi estivi, prima che iniziasse a frequentare l’alberghiero e a bazzicare la gastronomia del cugino a Lido di Camaiore. Iniziava a configurarsi così nella sua mente un format crossover, fondato sulla complementarietà fra cucina e gastronomia, ristorazione e commercio. Sul comodino i classici della cucina francese, fra un albergo al mare e la terrina da glassare. Finché la morte del padre non lo riportò bruscamente a Camaiore, quale responsabile dell’azienda familiare. Nel 1997 subentra il catering; dieci anni dopo la ristorazione, precedentemente praticata su pochi tavoli e solo su commissione.
L’azzardo di un autodidatta, data la formazione da solista, per banco i tavoli dei migliori ristoranti del mondo, frequentati durante le ferie con picchi di 3 pasti al giorno, nell’impossibilità di compiere uno stage durante l’anno a causa della gastronomia. La Toscana e l’Italia, poi la Francia, ma anche gli Stati Uniti e l’Inghilterra. “Da St. John, a Londra, ho trovato un concetto di cucina materica molto vicino al mio, dove l’importante è ciò che arriva sul piatto. Senza pretendere di compiere un’operazione salutistica perché la mia è una proposta ricca, concreta, golosa, che mira al piacere. Quando studio un nuovo piatto consulto i libri, interrogo i colleghi, soprattutto mi confronto con la materia prima. Provo e riprovo, con umiltà”.
Metodo Torcinelli
Stile Merlo
Si comincia con il parfait di fegato grasso d’oca e fegatini di pollo al pepe di Sarawak (foto a lato), miseria e nobiltà, campagna toscana e corti parigine strette in un unico paesaggio gustativo. La cottura viene svolta a bagnomaria con la riduzione di tre vini, fino alla consistenza di un crème caramel; più il panbrioche d’ordinanza. Ancora Francia, a seguire, con l’uovo alla Nino Bergese, in realtà un oeuf Villeroy impanato con besciamella al tartufo nero e Panko per la consistenza croccante, servito con topinambur in crema e in chips, tartufo bianco di San Miniato e un’insalatina la cui vinaigrette sembra srotolare una scala sotto gli idrocarburi dei tuberi, fino alle narici del commensale. “La difficoltà del piatto sta nel procacciarsi l’uovo giusto. Dai contadini qui vicino acquisto uova che hanno al massimo due giorni, possono quindi affrontare la doppia cottura, prima brevemente in camicia, poi nel bagno d’olio, senza che l’albume si rompa. È difficilissimo, soprattutto in estate, quando le galline hanno sete, bevono troppo e annacquano le chiare”.
La Toscana torna protagonista nel baccalà con porri, come si usa da queste parti, alghe fritte e poca trippa per un gioco di consistenze. “Sono cresciuto con la cultura di questo pesce, che abbiamo sempre ammollato in gastronomia. Lo lavoro solo intero, che sia quello canadese a pasta gialla o l’islandese più carnoso. Viene sempre da pesce fresco, non surgelato, e lo dissalo in cella anche per 10 giorni, in modo che conservi il suo nerbo e non sviluppi odori sgradevoli. Le scaglie restano sode e masticabili; passate sulla padella di ferro non sono certo un cibo per sdentati”.
Ancora quinto quarto di pesce nella trippa di rana pescatrice al gusto mediterraneo di pomodorini napoletani, origano e capperi, la cui testura gelatinosa è perfetta sopra la bruschetta. Un fuori programma per cui va ringraziato il pescivendolo che rifornisce il Merlo, lasciandogli gli stomaci dei pesci più grandi; ma anche tonni completi di stomaco e guance e grossi polpi. I primi sgusciano da sotto il matterello di Romana, che padroneggia a istinto, senza bilancia, diversi tipi di impasto, più o meno duttili e croccanti grazie alle uova dei contadini.
I cappelletti con stracotto di manzo, maiale e piccione, secondo le tradizioni del luogo, conditi con burro di Isigny e Parmigiano 34 mesi (fil rouge del menu, di montagna e preferibilmente invernale perché più grasso) come i tipici tordelli, la cui sfoglia è impastata con una parte d’acqua. E ancora tortelli di erbetta e di zucca, ma alla moda emiliana, senza mostarda ma con qualche amaretto sbriciolato ad asciugare il ripieno.
Solenni i secondi: il piccione à l’étouffée, cotto intero sulle cosce nella padella di ferro per tesaurizzare la succulenza e servito disossato sul crostino, oppure il porcastro, incrocio di cinghiale e maiale messo a punto da un veterinario toscano, domato a bassa temperatura e poi croccantato sulla cotenna ai margini del fourneau fino a consistenza vitrea nel suo stesso grasso, servito con purea di mele della Garfagnana e salsa all’antica con cipolla e limone pelato a vivo in infusione. La reinterpretazione di un condimento tradizionale dell’arista, che esalta la dolcezza della carne e la tempera con l’acidità, per polpe dal gusto selvatico e dalla consistenza domestica, dotate di una cotenna spessa che non produce il consueto effetto biscuit. Lo stesso veterinario fornisce il Merlo delle anatre ingermanate spiumate dalla signora Agata, come i tordi e le beccacce, servite con la coscia confit nel suo grasso, una salsa a base di vari tipi di aceto ridotti e le interiora su una bruschettina di polenta. Fuori programma il rognone di castrato saltato nella padella di ferro col suo grasso e servito su crema di sedano rapa al cren con salsa vergine a base di fondo di vitello e lingua salmistrata ai due tartufi, ricetta tanto estemporanea quanto indimenticabile. In finale di pasto non si cambia registro: la pasticceria è tutt’altro che svenevole e manierata. Prima le arance condite con arance selvatiche candite delle monache benedettine (foto a sinistra), per la profondità e il contrasto, rosolio di arance, olio e pepe, tautologia che rinnova un classico del centro Italia; poi il millefoglio di pasta sfoglia fatta in casa la mattina con farina e burro di Normandia, intensamente caramellato e farcito di crema Chantilly.
Ristorante Il Merlo
Via Provinciale, 45
55041 Camaiore (LU)
Tel. +39 0584 989069
www.ilmerlocamaiore.it
ristoranteilmerlo@gmail.com