Il genio della lampada e l’eredità di paracucchi
Lunasia, ovvero quiete, serenità in etrusco. A pochi passi dalle spiagge di Tirrenia, sul lungomare di Pisa, la brezza iodata spettina l’erba di fronte alla vetrata del ristorante. Un’ellisse colorata, praticamente una scatola di luce sopra lo specchio rosso del marmo, trafitta dalla prua di una nave disegnata dall’architetto Cristofani per la cucina a vista. Tutt’intorno si sparpaglia il complesso del Green Park Resort, edifici che sono stati in gran parte recuperati nel 2000, dove un tempo aveva sede la scuola di arti e mestieri dei salesiani. Celle, sale e salette, refettori di epoca fascista. Oggi adibiti a struttura ricettiva con camere, villette, spa, centro congressi, campi da tennis, piscina e spazio grill, soprattutto due ristoranti, uno d’albergo, chiamato le Ginestre, l’altro gourmet. Il Lunasia, per l’appunto.
Luca Landi vi è approdato nel 2000, lui cuoco dalla vocazione precocissima: “Già a 8 anni ero sicuro di voler fare questo lavoro”. Papà figurinaio, come si chiamano a Lucca gli artigiani delle statuine in gesso; mamma figlia di fornaio, e fornaia a sua volta, oggi ricorda: “Dalla mia famiglia ho ereditato la manualità e il culto della buona tavola. La domenica mattina io e mia madre allacciavamo il grembiule per il pranzo di festa e anche per la ‘mise-en-place’ della settimana. Non ho mai avuto esitazioni”.
I fondamentali con paracucchi
Eccolo quindi seduto sui banchi dell’alberghiero di Marina di Massa, e poi discepolo di sua maestà Angelo Paracucchi, già all’opera nella vicina Ameglia, appena passato il confine con la Liguria. Un Maestro nel senso pieno del termine, tuttora polare nell’orientare la prua del Lunasia, con gli accorgimenti e gli aggiornamenti del caso. Perché se Angelo Paracucchi fosse un cuoco in erba, oggi sarebbe certamente un altro se stesso. “Dopo i 16 anni ho iniziato ad affiancarlo, soprattutto in estate; poi ho trascorso un anno e mezzo nel suo ristorante di Parigi, il Carpaccio, in qualità di capopartita. Era un personaggio anticonformista, che ha cambiato profondamente l’immaginario del settore. Perché faceva banchettistica dai grandi numeri, andava in televisione, confezionava i suoi prodotti conservati per il Giappone, innovava senza sosta quando al massimo in giro si trovava qualche piatto tradizionale rivisto in chiave francesizzante. Lui no, lui è stato il primo in Italia fin dagli anni ’70 a mescolare carne e pesce, pesce e frutta, oppure nel 1974, quindi in anticipo su Michel Guérard, a mettere a punto ricette come l’insalata della salute, incentrate sul benessere. Nel momento in cui le tavole italiane erano invase dai prodotti industriali, disponeva di una conoscenza enciclopedica del prodotto, grazie alle sue origini contadine e alla formazione da agronomo. Per non parlare dello studio dei fondamenti della cucina italiana, tanto che era soprannominato ‘l’Angelo della pasta’. Penso al perfezionamento dello spaghetto alla lampada negli stessi anni in cui il suo antagonista, Gualtiero Marchesi, lo toglieva dal menu. E non era l’unico contrasto fra i due. Marchesi guardava alla Francia e al Giappone; Paracucchi era più italiano. Il primo era sensibile all’arte, il secondo tutto concentrato sul gusto nei suoi fondamenti di natura chimica, tanto che l’estetica per lui era quasi un difetto. Una volta, al Carpaccio, gli presentai un tiramisù eseguito secondo la sua ricetta, ma presentato in forma di tortino grazie al coppapasta. Mi riprese severamente perché a suo giudizio la bellezza rischiava di distrarre chi mangiava”. La vera eredità raccolta da Landi, tuttavia, sta nell’acribia tecnica, che è una passione molecolare ante litteram. Tanto che il capolavoro di Harold McGee Il cibo e la cucina fu dedicato nella sua prima edizione italiana proprio a lui, che ne aveva propiziato la traduzione. L’atteggiamento di Landi è il medesimo: stesso controllo maniacale di qualsiasi processo di trasformazione, nessuna concessione all’approssimazione. Lo testimonia il gelato, passione dolce e salata dello chef, che nel 2009 ha vinto una Coppa del mondo di pasticceria al SIGEP rivoluzionando il suo metodo di produzione (duplice la prova: sul salato baccalà, ricci di mare e gamberi; sul dolce un cubo di Rubik). La gelatiera è quella tradizionale, per insufflare più aria possibile, ma è la composizione della miscela a cambiare: non più ricette che grammano singoli ingredienti, ma questi ultimi scomposti nelle loro componenti liquide, grasse, proteiche. Sulla pista della combinazione perfetta. Ma il curriculum di Landi va a zonzo anche per la Closerie des Lilas, prestigiosa tavola parigina, dove Joël Robuchon aveva depositato collaboratori e savoir-faire, e l’Enoteca Pinchiorri, già nell’epoca della diarchia Bassi-Monco. Più qualche stage in epoca Green Park, presso il Louis XV a Montecarlo, “per il rapporto con la professione”, e il Celler de Can Roca. “A spingermi in Spagna è stato il desiderio di completare la mia formazione. Ci hanno liberato da tanti tabù: si fa così perché si è sempre fatto così… Non posso fare questo e quest’altro perché non si fa…”.
Nel 2000 alle Ginestre, dal 2005 presso il nuovo ristorante, Landi è finalmente assurto al rango di chef patron, appuntando sulla divisa una stella Michelin nel 2011. La sinergia fra le due strutture è integrale: è nella grande cucina della prima, estesa su 400 metri quadrati, che si svolgono le fasi preparatorie, mentre la finitura e le preparazioni espresse salpano per la nave del Lunasia, prima di arrivare ai 30 coperti (massimi) della sala.
Le necessarie digressioni
L’ombra di Paracucchi si stende sulla carta attraverso omaggi espliciti, specialmente adesso che incombe il decennale della scomparsa. “Posseggo le schede delle ricette del Carpaccio, perché chi era distaccato a Parigi godeva di questo privilegio; e anche una raccolta del Maestro. La mia operazione è stata di addizione: più estetica, updating tecnico e personalizzazione. Alla composizione delle paste fresche, che erano suo appannaggio, ho aggiunto un po’ di semola, ad esempio, oltre a incrementare i tuorli. Per il resto mi sono attenuto agli insegnamenti ricevuti: la lavorazione nella planetaria con un cubetto di ghiaccio, per non stressare le proteine; la stesura prima a 0,6, poi a 0,3 mm, per rendere la pasta più stabile e porosa. Nell’anatroccolo ho tenuto fermi la cottura del volatile e la marmellata di more, ma ho farcito sia la coscia che il collo, perché amo utilizzare l’animale intero. I jus poi sono preparati con diverse carni, al contrario della demiglace con cui si deglassava invariabilmente il padellino di cottura”. I prodotti sono in larga misura locali, dal pesce dell’asta di San Vincenzo alle carni della macelleria Masoni di Viareggio. Da Lucca arrivano invece frutti di bosco, castagne, erbe aromatiche, prodotti di raccolta e di stagione. I menu sono tre: il degustazione Paesaggi da 10 portate + aperitivo; Simone e Claudio (intitolato ai due sous-chef, che sono responsabili di 6 portate + aperitivo col concorso dello chef) e Tratti di Toscana (3 portate a scelta).
Si comincia con l’aperitivo, che mette in sequenza i 5, pardon 6 sensi: per il gusto il cono al sesamo con gelato di cozze e cialda di guanciale (dove i sapori contrastanti battono come i pistoni di cui parlava Paracucchi, sollecitando il cervello e la memoria); per l’olfatto il trancetto di sgombro con marmellata di limone e crudité di ravanello affumicato al toscano, reminescenza scabiniana dove il fumo acre e quasi tannico esalta l’ittico grasso; per l’udito le chips soffiate a base di riso, tapioca e fregola con crema acida e polvere di polpa e testa di gambero, vettori di scrock; per il tatto la crocchetta finger food di aglio bruciato alla seppia; per la vista l’acquario ad inganno di pesce e alghe fritte con salsa rosa gelata nel rossetto per una misurata porzionatura, esempio di packaging giocoso e funzionale; per l’ironia, infine, il gelato di ostrica con japanese slipper, cocktail a base di liquore al melone. Basse temperature e superalcolico, come si conviene; pesce e frutta, secondo il modello di Paracucchi. Con il gelato modellato a forma di perla per strappare il sorriso.
A seguire i signature dish della casa: la carbonara di mare, a base di spaghetti affumicati con la salsa marinara di Paracucchi, eseguita alla lampada, in cima una nevicata di tuorlo marinato di cracchiana memoria; oppure l’arca di Noè, cacciucco canonico, con tanto di polpo al vino rosso, legato col pane, per rendere contemporaneamente omaggio a un’altra istituzione toscana, la pappa al pomodoro, in superficie il consueto, ricco corredo di pescato: canocchie, cozze, pesce di scoglio, gamberi dal punto di cottura impeccabile. Oppure la marinata marina: carpaccio di coscia di fassona piemontese marinata in acqua di mare e colatura, sul modello del garum dei Latini, con un tripudio di ricci, gamberi e salse che innescano i freschi contrasti di un’insalata, giacché Landi è stato un lettore compulsivo di libri di cucina antichi. In chiusura l’ultima versione del cubo di Rubik, con cremolata di mandorla e gelato inverso per agguantare l’omogeneità delle testure e la mantecatura perfetta.
La lampada in tutto questo non è solo coreografia e scenografia; serve piuttosto per centrare obiettivi sempre diversi, ricetta per ricetta. I profumi e i sapori che si amalgamano sono il correlativo dell’incontro fra l’ospite e lo chef, che esce personalmente in sala, cogliendo l’occasione per narrare le singole ricette e le peculiarità degli ingredienti. È il caso della rielaborazione alla lampada del cacciucco alla viareggina come dei pici mantecati con cozze pelose e pecorino toscano, shakerati nel formaggio stesso dopo il passaggio sulla fiammella.
L’imprinting familiare porta nel cestino 9 varietà di pane, 2 tipi di grissini e uno di taralli (più la pagnotta toscana di un fornaio). Sono tutti preparati con un lievito madre alla mela verde e basi di farina bianca, integrale o speciale, con un’attenzione particolare per la “forma del gusto”, in questo caso la geometria del panino, con la proporzione crosta/mollica che ne consegue. In cantina 800 referenze per le cure del maître sommelier Claudia Parigi, alla guida di una sala tutta al femminile. Fra grandi italiani e francesi, Champagne in testa, la Toscana si ritaglia una carta a parte, strutturata sulle Strade del vino, con sezioni narrative e piccole cantine da scoprire.