Tutte le nuove bistronomie
Lo aveva profetizzato già Walt Disney nel suo Ratatouille, acclamato cartone in cui scorreva il sangue blu del dandy Thomas Keller, arruolato nelle vesti di consulente. Che l’adiposità pomposa di Monsieur Gustau, paradigma degli chef transalpini aureolati di stelle, avrebbe ceduto il passo all’agilità trasgressiva degli insospettabili (il motto “chiunque può cucinare” contro le caste bianche dei fourneaux). Le animelle con salsa di acciughe e liquirizia alle seduzioni proustiane di una ratatouille appena rivisitata, scomposta e poi ripassata nel forno caldo della transustanziazione memoriale. Freschezza, fragranza, comfort food, pomodori, zucchine e melanzane. Un messaggio reazionario? Può darsi. Quasi che l’haute cuisine fosse tenuta a cospargersi il capo di cenere e domandare perdono per la sua secolare arroganza classista. Riconoscendo la superiorità della forchettata golosa di maman come un pugile suonato dopo il gong.
Ebbene, nel chiaroscuro datato 2012, mentre la Francia comincia a paventare il panico da spread e il batticuore dell’effetto domino, l’insegna del ratto disneyano pende salda dalle labbra rosse di Marianne. Le file composte dei clienti a sancire l’espugnazione della patria della gourmandise come un plotone di fanti all’arrembaggio. Il critico Sébastien Démorand negli anni ’90 l’aveva battezzata “bistronomia” : un guanto raccolto con prontezza dai connazionali toqués, nelle ambasce d’una decadenz dorata. Yves Camdeborde per primo, già al Ritz, alla Tour d’Argent e all’Hotel de Crillon, prima di innescare gli ordigni della Régalade e del Comptoir du Relais Saint-Germain. Ma la vera voga è invalsa di recente. Quando il mot-valise ha iniziato a scoppiare di un corredo generoso e disparato, infilato in tutta fretta dentro cerniere troppo tese per affrontare il lungo viaggio.
Non che i Gusteau abbiano gettato la spugna, tutt’altro. Essi restano anzi immarcescibili monumenti alla pariginità, al pari della Torre Eiffel, dell’art métro e della tomba di Jim Morrison; e si proiettano in una nuova generazione tanto promettente quanto propensa al meticciato. A tenere banco è la composita progenie di Alain Passard, assai più generoso degli altri big nell’elargire possibilità, spunti e formazione. Una voce importante nel bilancio di ogni carriera apicale.
Sui suoi passi, Lutetia all’ora di cena può vestire abiti firmati o panneggi bohémien da mercato delle pulci.
Mentre le carte si sparigliano dietro il pass, dove le brigate tessono la spola fra i due mondi, come dentro il piatto, nel quale l’innovazione condivide le frontiere da spostare.
L’AVANGUARDIA DI TOUTAIN
Chi affonda più degli altri nella metà campo gastronomica, in termini di prezzi e di soffuse eleganze gustative, è il trentenne David Toutain dell’Agapé Substance, già puleggia nei sofisticati ingranaggi dell’Arpège e del Mugaritz. Sulla sua tavola, un’unica, lunga isola dove si mangia gomito a gomito di fronte ai cuochi in azione, issati su sgabelli da bar che volano in una bachelardiana “rêverie appollaiata”, approda una dozzina di assaggi prevalentemente vegetali, secondo gli insegnamenti dei maestri, sempre contrassegnati da ricami olfattivi sottili e tecniche avanguardiste schive. A dominare è il ritmo ternario, per esempio nel granchio con pompelmo e consommé di carota, cui concorrono in realtà fragranze anisate e canforate, o nell’uovo a bassa temperatura con mandorle fresche e aria di verbena. Ma lasciano il segno anche la pancetta di maiale con crema di melanzane e meringa di farina carbonizzata e la declinazione di carota. Piatti cangianti, leggeri come l’aria dei filosofi, tanto imponderabili quanto esatti nei loro giochi gustativi minimali.
LE CONTRADDIZIONI DEL GENIALE INAKI
Dal canto suo, la Woodstock della cucina bistronomica accende gli amplificatori ogni sera in avenue Parmentier, ai civici 129 e 131. Perché la sorpresa è che Inaki Aizpitarte ha sdoppiato l’ormai storico Chateaubriand nel gemellato Dauphin, dove il vino al bicchiere contende la scena a una mitragliata di tapas gourmand, in omaggio alle origini basche e alle voghe contemporanee. Peccato che la mescita non approdi nella trasparenza eterea di un Riedel ma venga trangugiata da calici dozzinali e spessi, uguali per Champagne e robusti vini naturali. I quali evidentemente stridono con i notevoli ricarichi applicati alle bottiglie presso entrambi gli indirizzi, a dispetto di una democratizzazione dell’edonismo che non oltrepassa la facciata. Il marmo bianco, le illusionistiche pareti a specchio e gli arredi lineari accolgono comunque ogni sera torme di catecumeni infojati, pronti a celebrare la liberazione da forme e formalità ostracizzate come un retaggio del passato. Prima e durante il servizio, Inaki passa da un indirizzo all’altro vigile e nervoso, al pari dei cuochi della sua brigata. Allampanato, concentrato, la barba lunga da poeta maledetto in jeans. Dotato di un talento naturale germinato nel buio improbabile delle stamberghe, ha calcato la toque del comando per la prima volta grazie a Gilles Choukroun, lo chef beur capofila della “jeune cuisine”. Al quale va ascritto il merito di avere intuito in lui un talento primitivo e organico, sottoproletario e nel contempo sopraffino. Magmatico, energizzante, gagliardo nell’accezione steroidea della parola.
Vedendolo riflesso nello specchio del Dauphin, ci si chiede tuttavia chi sia mai il vero Inaki. Il ribelle irriverente di una cucina beat o l’uomo d’affari spregiudicato e astuto? Lo Chateaubriand è un bistrot come tanti altri, solo un po’ più trasandato; si siede attorno a vecchi tavoli in legno privi di tovaglia, attaccati l’uno all’altro, sotto gli occhi dei ritardatari che attendono che qualcuno sloggi per cogliere l’opportunità di un doppio servizio imbarazzante. Persino le posate non vengono cambiate fra una portata e la successiva, neppure se vengono poggiate speranzosamente sul piatto. E così il lampone va a finire sugli spinaci. Un po’ troppo se si considera che il conto finale si aggira sui 100 euro a testa (60 per il cibo, 120 con gli abbinamenti). Considerati i notevoli risparmi consentiti dal menu fisso, dall’assiepamento dei tavoli e dall’abbattimento dei costi di sala, ci si chiede se la bistronomia in questione più che all’edonismo liberato non miri al sublime matematico dei ragionieri.
I clienti tuttavia sembrano non farci una piega, le maniche rimboccate e l’entusiasmo a fior di mucosa orale. Quasi fossero altrettante repliche di Anton Ego impegnate a fare cadere la forchetta nell’estasi della gola regressiva, senza provocare del resto alcun rumore nel chiasso di sale che hanno sdoganato lo schiamazzo: decibel in libertà che si confondono col tintinnare della cassa. Dwight Macdonald avrebbe sfoderato la categoria del midcult: fra la cultura alta e quella di massa o popolare, il cuscinetto piccolo-borghese di un bovarismo culinario . “Nel masscult il trucco è scoperto: piacere alle folle con ogni mezzo. Ma il midcult contiene un duplice tranello: finge di rispettare i modelli dell’Alta Cultura mentre in effetti li annacqua e li volgarizza”. Finisce per sterilizzarli, insomma.
Siamo così sicuri che a salvare la cucina d’autore possa essere una spending review che affonda l’accetta piuttosto che il bisturi nella carne viva della sala? Il superfluo può essere scriminato con nonchalance dall’essenziale? Inaki mani di forbici ne è convinto al pari di torme di giornalisti planetari, che hanno innalzato il suo locale nel gotha della ristorazione mondiale, per le cronache al 15 posto della classifica dei 50 best. Gli stessi che probabilmente si stracciano le vesti per la crisi del personale di sala.
Ed è un vero peccato, perché la cucina c’è tutta, seppure orfana della sua aura. E il menu cambia a ritmi vertiginosi con gusti sempre nitidi e spontanei, eccellenti nella semplicità dei contrasti o nell’avvolgenza delle liaison, con la complicità delle opportune suggestioni globali. Dopo qualche tapas, per esempio un gambero al Calvados, un aggressivo ceviche da ingollare con il suo latte di tigre o una elegante bouillabaisse alla carota, a convincere sono il sanguigno tonno dell’isola d’Yeu cosparso di finocchietto, esaltato da frutti di bosco, rape rosse e bianche nel vigoroso ossimoro fra mare e terra; il fresco rombo chiodato con cantarelli, farofa e barbe di mais croccanti in funzione umidificante, col suo food pairing delicatamente aromatico; la più classica faraona con pomodori e carciofi. Ma è nel tocino del cielo, immaginifica contaminazione del classico dessert iberico e del caramello salato, che lo chef cala lo showdown vincente. Equilibrando con virtuosismo testure collose e asciutte che spazzano il palato, la dolcezza con note sapide e amare di piacevolezza sottile, impastate in un gioco a somma zero che rovescia l’opulenza originale nella neutralità di un boccone bianco.
UN GIOVANE SARDO SPLENDE NELLA VILLE LUMIERE
Quella di Inaki tuttavia non è l’unica bistronomia possibile. Gli indirizzi più gettonati nel passaparola dei foodies sono Septime, Frenchie e soprattutto Roseval. Dopo il successo strepitoso di Giovanni Passerini e del suo Rino, che ha sdoganato la bistronomia dei ritalos, è toccato infatti a Simone Tondo spopolare nell’altezzosa Ville Lumière. Nato appena 24 anni fa in Sardegna, nel suo breve percorso professionale ha piantato bandierine negli hot spots della gastronomia europea: Petza, Colagreco, Petter Nillson, Passerini, Carlo Cracco. Finché il 2 luglio non ha inaugurato con l’altrettanto blasonato Michael Greenwold il suo Roseval in un localino zeppo di atmosfera a Menilmontant. Il risultato è un neobistrot con tutti i crismi del caso: mattoni nudi, tavoli nudi, persino lampadine nude. L’intonaco bianco alle pareti e la luce copiosa che cade su piatti senza sbavature, contemporanei nella semplicità e nelle vibrazioni vivide. Decisamente friendly anche i prezzi: i menu fissi, una costante della tipologia, costano 35 e 42 euro a seconda che includano o meno il formaggio; un conto che sale rispettivamente a 62 e 65 in caso si opti per gli abbinamenti della casa, la cui cantina, guidata dalla sommelier colombiana Erika, un’ex dello Chateaubriand, conta numerose referenze italiane.
La seconda generazione della bistronomia sembra insomma tornata allo spirito originale del genere. Certo i tavoli sono a un’incollatura l’uno dall’altro e il silenzio cede alla convivialità, ma la professionalità del servizio, cui concorrono i cuochi, è assicurata dall’ex maître della Gazzetta e non si lesina sui prodotti, che si tratti del pesce bretone o delle carni del selezionatore Gilbert Huguenin. La carta cambia spesso ma non troppo, assicurando una cucina del mercato fresca ma riflessiva e ponderata. Spesso capace di sorprendere, come nel caso della zuppa di pesce costituita da un trancio di merluzzo su gazpacho di cetriolo con scaglie di mandorle e ricotta salata. Freschezza glaciale sulla semantica costituita.
E ancora il purè di patate affumicate con baby clams, cipolle saltate e briciole tostate al burro. Il piccione in tre maniere, completo di fegato e cuore, rifinito da un crumble di gamberetti grigi e l’opulenza contrastata della panna cotta all’albicocca. Forti contrasti che si ricompongono nell’equilibrio del menu. “Fra la scena parigina e quella italiana c’è un abisso”, commenta Simone. “In Italia sarei già fallito perché l’occhio cade sempre sugli stessi, c’è un’attenzione spasmodica su pochi ‘giovani’ eletti a campioni della categoria; mentre Parigi ha un bacino di utenza e interesse più ampio e una mobilità ben oliata. Volendo ricorrere a un’ipotetica dell’impossibilità, penso che se i cuochi italiani emigrassero in massa, Parigi diventerebbe come Tokyo, tornando ai fasti del cielo più stellato del mondo. Cracco e Baronetto, Crippa, Parini sarebbero considerati alla stregua di divinità. Perché chi di noi è approdato qui ha sempre trovato e perseguito una strada personale, contrariamente alla standardizzazione degli indirizzi francesi. Alzare i prezzi? Non ci interessa l’effetto esca. Vogliamo riempire il locale e portare una buona ristorazione in un quartiere popolare dove non c’è mai stata, oggi e domani”.