Walter De Bate’ e un vino che sa di salvezza
Venticinque ottobre duemila e undici. È passato quasi un anno dall’alluvione che ha lavato via l’ottimismo da questa piega preziosa di Liguria. Un diluvio di fango sopra qualche decennio di benessere e una collezione di allori, il ramoscello più brillante ricevuto dalle mani dell’Unesco. Sopra le ferite, la fuga delle piccole frane ai margini della strada, i morsi delle radure glabre su cui sono scivolati via gli alberi, il cerotto della stagione turistica ha lasciato danzare il consueto tourbillon di colori, lingue, nazionalità. Una Babele vacanziera e distratta, generosa e squillante, sfilata carnevalesca ad esorcismo della paura. Quasi che nulla fosse successo e la nottata fosse definitivamente passata, archiviata fra le pile dei resoconti internazionali e nelle retrovie della memoria, in attesa di una coltre di polvere mai così agognata. Sarebbe ingiusto, tuttavia, se le passate di intonaco colorate di confetteria e i veli di asfalto sopra le fogne riparate finissero per cucire la classica toppa della rimozione sopra un trauma troppo fresco e perturbante.
La pioggia battente, il mare gonfio a forza sei, i canali intasati, le trombe marine che si sono abbattute sull’entroterra non bastano a spiegare l’accaduto, rubricandolo sotto la voce “fatalità”. Il plot del disaster movie comincia ben più indietro e non vuole remake. Più che a un rivolo della speculazione edilizia (qui meno agguerrita che altrove), somiglia a uno squarcio sulla merlettatura minuziosa delle terrazze. Quelle file di muretti a secco, destinate da tradizioni secolari alla viticoltura, come nell’eroica Valtellina, che a detta di molti, messe l’una dietro l’altra, eguaglierebbero con umiltà contadina i fasti della grande muraglia cinese. Ecco allora che sorge un’altra domanda: quale futuro, o meglio quale ruolo per i giacimenti gastronomici della zona? Risorse che intrattengono un rapporto ambivalente con il turismo, il quale in parte le offusca, in parte le alimenta e le rilancia.
Poco sappiamo di quanto avviene sui fondali marini. Si dice che il pesce (fra cui le celebri acciughe di Monterosso) sia scappato dopo il cataclisma. E ci si chiede che sia avvenuto delle macchine (solo a Vernazza un centinaio) scaraventate in acqua complete di combustibile e batterie. Potranno fungere magari da strumento di ripascimento, fornendo una tana agli animali? E il vino, a cominciare dallo Sciacchetrà, potrà sopravvivere alle sue terrazze?
Garagiste wine
Ne parla con passione Walter De Battè, sorta di garagiste del vino ligure, che parcheggia i suoi alambicchi in una cantinetta appena dietro la stazione di Riomaggiore. Alle sue spalle è socchiusa una porticina di legno su un carugio che si inerpica casa dopo casa, sfidando l’elasticità dei tendini e le coordinate del campo visivo. Prima che la pendenza si tinga del blu di un mare verticale e sassoso, ruvido come il carattere di queste genti. Un lato della stanzetta è scavato nella pietra viva, che mostra i suoi spessori franti preannunciando le sculture liquide scalpellate nel bicchiere. Mentre sul soffitto si aprono i fori da cui un tempo si calava il mosto appena franto al primo piano, un po’ come si fa oggi nelle cantine dei produttori biodinamici.
In questo edificio cinquecentesco i De Battè hanno pigiato e fermentato l’uva per generazioni. Un rito officiato in ultimo dalle donne, fra cui brillava zia Ortensia, al quale Walter bambino e ragazzo assisteva e partecipava. Anche se durante gli studi e l’impiego da tecnico di armi subacquee (“fino agli anni ’90 la mattina il paese si svuotava, perché tutti prendevano il treno per andare a lavorare nel militare”), pur continuando a collaborare nel fine settimana, il vino non lo assaggiava nemmeno. Almeno fino a 22 anni, quando quel retaggio del passato che rischiava di scomparire per sempre cominciò a sembrargli un bene prezioso da salvare. “Ricordo che fino a poco tempo fa alla stazione di La Spezia c’erano grandi foto in bianco e nero con i muretti a secco praticamente su ogni esposizione fino all’infinito, tutti vitati. Gli ortaggi venivano coltivati solo lungo i canali, e dove mancava il sole si piantavano gli ulivi. Persino i paesi passavano in subordine, magari erano male esposti perché a dominare era il vino, che era oggetto di un commercio fiorente con la Francia fin dal 1400. Ma era qualcosa che si stava perdendo. Così ho iniziato gli studi da sommelier e ho acquisito i primi rudimenti di enologia grazie a Giorgio Bacigalupo. Continuavo a chiedermi come mai ottime uve potessero dare pessimi vini, guardavo ai grandi bianchi del Mediterraneo, soprattutto campani. Ho iniziato con un Cinque Terre dai vigneti di famiglia, fedele alla macerazione sulle bucce, che da queste parti c’è sempre stata, e ai travasi secondo i giorni prestabiliti in calendario. Oltre allo Sciacchetrà che mi ha dato la fama, ma che non ho mai amato, tanto che ho smesso di produrlo nel 2007. Forse perché mi ricorda le feste comandate, con tutti gli obblighi che comportano; forse perché nei passiti c’è sempre troppo uomo e troppo poco territorio. I vitigni erano quelli di sempre: il vermentino, vero autoctono insieme al rossese bianco, che è buonissimo ma molto fragile, quindi è stato abbandonato ma oggi l’ho ripreso. E poi l’albarola, che è un trebbiano, e il bosco, che è arrivato qui solo nell’800. Il mio primo mercato è stata la ristorazione locale, che stava vivendo la sua età dell’oro. Angelo Paracucchi come Gianni D’Amato, allora ad Aulla. Poi si è aperta la strada verso l’estero e sono arrivati i primi riconoscimenti delle guide”.
Era un vino che sapeva di lupini, secondo la tipicità canonizzata; corretto ma “convenzionale”. Fino alle rivoluzioni degli anni ’90, con l’adozione della macerazione senza controllo di temperatura, anziché a freddo, e della lunga permanenza sur lie, per scortare e irrobustire il vino fino all’imbottigliamento come un “cordone ombelicale con la terra”.” Quando poi ho incontrato Gravner – prosegue Walter – mi sono accorto che molte cose che stavano iniziando a fare tendenza, in realtà le avevo sempre fatte. Anche se le mie macerazioni sui bianchi restano brevi, attorno ai 4 giorni, perché miro a tesaurizzare il territorio sulle bucce. Una curva che sale, sale e poi scende bruscamente, lasciando il posto alla tecnica”. Vini naturali? Vini veri? “Non saprei, preferisco stare alla larga dalle ideologie. E anche dai disciplinari. I vini che produco con la Cantina Prima Terra su questi costoni sono tutti fuori Doc, etichettati ‘da tavola’, come quelli della mia seconda azienda, la Cantina Walter De Battè. Lo stesso spirito con cui lavoro come consulente in Abruzzo, sui Colli di Luni e a Porto Venere”.
Vini sopravissuti al degrado ambientale
E l’alluvione? “Fortunatamente i suoi danni sui vigneti della denominazione sono stati limitati, appena qualche ettaro a Vernazza. Ma ci ha dato la misura di quello che potrebbe accadere a causa del dissesto del territorio e del degrado inesorabile dei muretti a secco, rivelandolo a tutto il mondo. Dopo l’abbandono massiccio negli anni ’80, il Parco aveva tentato di rilanciare le terrazze facendone un’attrazione turistica. Ma la manutenzione è stata sporadica e disomogenea, tanto che oggi molti preferiscono tenere i loro fazzoletti incolti, anche perché non saprebbero effettuare la minima riparazione. A questo si sono aggiunti i cinghiali di ceppo ungherese, immessi dalle autorità alla fine degli anni ’70 ed esplosi nei ’90, che oltre a mangiare l’uva distruggono i muretti in cerca di radici. Ci sarebbe bisogno di un intervento a tappeto a restauro dell’esistente e di una fascia di protezione sopra i paesi, occorre rifare i canali ed arginare la piaga dei cinghiali. Perché altrove un’area così perpendicolare non sarebbe stata abitata, e se è avvenuto, è stato grazie a un lavoro costante e instancabile di domesticazione e di cura, che non è possibile interrompere senza pagarne le conseguenze. Il clima per di più è diventato piovoso e instabile. Le perturbazioni del Golfo del Leone arrivano fin dalla Spagna e non trovando via di sfogo vorticano e si amplificano a dismisura. Cosicché le vendemmie sono imprevedibili e discontinue , un rischio in crescita col surriscaldamento globale”.
L’amarcord delle pietre e del sudore regala vini indimenticabili, che Walter ha intitolato a Vitruvio e alla sua teoria architettonica, imperniata sull’opposizione fra luce e ombra. La prima illumina Harmoge (nel latino vitruviano, armonia), bianco di punta della casa. Le viti settantenni dei tre vitigni tipici affondano le loro radici nello stesso terreno scistoso in cui è scavata la cantina. Al pari di finestre sul sottosuolo. Disegnando un profilo aromatico profondo, stratificato come una carota geologica complessa fino a sentori quasi vulcanici. Ne risulta un inno al terroir nella sua perpendicolarità distintiva, che spreme dalle pietre il loro tesoro minerale come un cercatore sulla pista della vena d’oro. Facendo poi rilucere sui loro spigoli la brillantezza solare e inebriante dei costoni. Con un corredo caldo di curry, radice di zenzero, fiori gialli appassiti dal solleone.
Mentre il controcanto umbratile è intonato dal Tonos, generoso uvaggio toscaneggiante di sangiovese, canaiolo, ciliegiolo, cabernet e merlot, e soprattutto dal Çericò, rosso mediterraneo a base di granaccia e shiraz, che nobilita il vino nigru della zona a dispetto degli stereotipi imperanti. Anche in questo caso, la brillantezza nel bicchiere parla di pietre acuminate che feriscono i piedi e le narici, bagliori corruschi di minerali antichi e serpentine di fossili preistorici. Macchia mediterranea, mirto, china e rabarbaro sferzano un corpo robusto ma snello, magro come il terreno delle terrazze. Fedele ancora una volta all’impervia tipicità del paesaggio. Nel bicchiere una lezione di vino, e forse anche un messaggio di salvezza. Quasi che quei fili minerali potessero cucire lo sgretolamento delle scisti e la fuga delle frane, così da compattare l’oreficeria delle terrazze in una simbiosi rinnovata fra l’uomo e la natura.