
“Genio? Macché. Il genio è lavoro”. Si schermisce Ferran Adrià di fronte allo stupore per un’impresa intellettuale titanica, che rischia di far apparire il ristorante più importante di sempre come il semplice prodromo di qualcos’altro. Sembra che abbia una molla sotto la lingua, tanto scatta inarrestabile mentre si aggira per spazi inclassificabili: quelli di Bulligrafia, in Carrer de Mexic, Barcellona.
Al termine della rampa grigia per i garage sulla destra, dietro un portone di metallo, l’open space somiglia a un capannone, con le scrivanie sparse qua e là, sotto i gomiti di ragazzi assorti al computer, i pannelli divisori tappezzati di fogli, le copertine di riviste appese come il bucato da un lato all’altro della cubatura e qualche lavagna multimediale; su un lato un divanetto per gli sporadici incontri con la stampa. L’ultima stanza è quasi un museo: riunisce ventimila oggetti censiti di elBulli che hanno fatto la storia, non solo della ristorazione, ma anche del design.
Ci sono un tavolino sradicato pari pari da Cala Montjoi, sorprendentemente rétro con la glacette e la stoffa sulle sedie; una teca di misurini per il taglio degli alimenti, di tutti i colori e le forme; stoviglie e posate in quantità. Anche il premio Lucky Strike Designer Award, ricevuto nel 2006, in compagnia di Philippe Starck fra gli altri.
Subito sotto dai garage si accede agli spazi della biblioteca gastronomica, dove sono catalogate 700 referenze fra libri e riviste del settore, “non tutto, ma l’imprescindibile”.
La differenza stordisce con l’atmosfera lussuosa e felpata dell’alta cucina, eppure si lavora altrettanto sodo. “Per me sono almeno dodici ore al giorno, talvolta anche quindici; oggi mi sono svegliato alle cinque”, dice Ferran, orgoglioso di questa trasformazione miracolosa del cibo in conoscenza, della materia in pagine.
“La gente pensa che elBulli sia chiuso e che mi goda la pensione. Invece io e Lluis Garcia, che era direttore al ristorante, sgobbiamo più che mai”. Solo la materia è radicalmente cambiata, per così dire spostata dal fuoco. Tanto che torna in mente la morte dell’arte: “La più alta destinazione dell’arte nel complesso è per noi un passato”, scriveva Hegel. “Per noi è trapassata nella rappresentazione, l’idea peculiare dell’arte per noi non possiede più l’immediatezza, che aveva nel suo periodo di massima fioritura”. E questo a causa della sovrabbondanza di contenuto, del costante interrogarsi sul significato dell’opera così traghettata verso la conoscenza astratta.
Proprio Ferran, “individuo cosmico storico” nell’accezione ancora hegeliana del termine, di colui che persegue un principio nuovo per l’epoca e ne innesca il cambiamento, aveva già spinto oltre ogni limite il contenuto di una cucina più concettuale che mai, cadaverica nel costante imperativo del ricominciamento da zero e nel ripiegamento ossessivo in chiave di metacucina. Contenuto che si è finalmente emancipato prendendo il sopravvento.
“Non potevamo più andare oltre”, commenta. “Eravamo giunti al limite della cucina e dell’esperienza gastronomica. Nel senso che non potevamo aumentare il numero dei piatti: arrivati a 45, potevamo solo diminuirli. Per quanto riguarda il confine fra cucina e arte, lo avevamo già raggiunto e superato. Ormai il pasto era pura performance, non si trattava più di cibo. Nel 2009 abbiamo smesso di creare ai massimi livelli.
Ma negli ultimi 8 anni, quali novità ci sono state nella ristorazione? Qualcuno parla del naturalismo di René Redzepi, ma in cucina esiste sempre un livello di elaborazione. Posso avere il chuleton oppure il consommé: Michel Bras era già questo negli anni ’80”.
L’INTERVISTA
Quali sono le novità che hai registrato tu, invece?
L’ultima è Enigma, il ristorante di mio fratello Albert a Barcellona, soprattutto per lo spazio. Può piacere o non piacere, ma è dirompente, qualcosa che oggi è molto raro. Nell’arco di 20 anni a elBulli abbiamo fatto di tutto, nel 1997 servivamo già la mousse di fumo; ma dopo una cosa simile, cosa può esserci? Creare diventa sempre più difficile. Inoltre la società non ha più la stessa capacità di sorpresa, manca il cosiddetto potere di shock. Donald Trump presidente degli Stati Uniti? Normale. Brexit? Normale. Il nuovo ristorante di Redzepi? Normale. Non esiste più lo scandalo. Se vai da Enigma invece ti chiedi: dove mi trovo? Su Marte? L’assuefazione è un problema molto grave per chi fa innovazione. La soglia della sorpresa è diventata quasi irraggiungibile.
Forse ci sono altri valori in cucina, diversi dalla sorpresa?
Non nell’innovazione, per chi cerca un ristorante creativo. A Norman Foster o Frank Gehry viene chiesto di stupire, a parte la qualità. Invece chi va da Etxebarri non cerca il livello 10 di creatività, perché non è quello il suo focus. Poi bisogna distinguere fra ciò che è creativo e ciò che è dirompente, parola che in cucina non si usa praticamente mai. Indica una frattura con le consuetudini, come quando a elBulli abbiamo smesso di servire il pane.
Per questo hai cercato l’innovazione altrove?
Avrei bisogno di tre giorni per spiegarti quel che abbiamo fatto negli ultimi sei anni. In questo momento siamo concentrati su tre progetti, tutti sotto l’ombrello di elBulli Foundation. Per tre anni qui c’è stato il BulliLab, uno spazio dove lavoravano 70 persone, in collaborazione con università, centri di ricerca e istituzioni. Oggi si chiama BulliGrafia. Dopo il catalogo ragionato di elBulli, con le sue 7000 pagine, sta producendo la Bullipedia, enciclopedia già in via di pubblicazione, che comprenderà un database, per capire chi ha inventato cosa e quando, e 35 libri sulla ristorazione gastronomica occidentale, dalla cucina al servizio, dal vino al marketing. Verrà pubblicata prima su carta, con traduzione in inglese, poi online, perché ci interessa lavorare sulle sinergie fra intelligenza artificiale e umana, quindi con i traduttori simultanei, ma solo quando avranno fatto progressi significativi. Credo occorreranno cinque anni, adesso sarebbe un suicidio. Si tratta di libri accademici, ne sono già usciti due, dedicati alle bibite e a come è iniziata la cucina. Perché il 99,99% degli addetti ai lavori lo ignora. Poi nel 2018-2019 ne pubblicheremo altri: i prodotti elaborati, non elaborati, il vino, i cocktail e la classificazione dei tipi di cucina fra gli altri. La ristorazione gastronomica finora non ha avuto né il tempo né il denaro per sistematizzare queste conoscenze, cosicché non esistono riferimenti in materia, a parte Modernist Cuisine di Nathan Myhrvold. Se ti chiedo un’opera sulla storia della ristorazione occidentale, cosa rispondi? Non esiste. Oppure sui prodotti. Eppure tutti parlano di materie prime. Noi in dieci anni andremo a investire otto-dieci milioni di euro, poi vedremo quanti ne recupereremo, per collaborare con scienziati, grafici e storici allo sviluppo di una visione olistica, di cui condivideremo i risultati. Bisogna studiare: è qualcosa di nuovo nel nostro lavoro, ma la conoscenza è il futuro. E bisogna smettere di parlare per approssimazioni e per sentito dire. Le categorie innanzitutto: la gente pensa che sia un bene mangiare naturale, ma il naturale che cos’è? Può essere biologico? Oppure è una manipolazione?
Chi finanzia tutto questo?
Io, col mio denaro. Ma non si tratta del progetto più importante. La mia sfida è Sapiens, che riguarda la metodologia dell’innovazione, in collaborazione con MIT, Harvard, Telefonica… Ci vorrebbero ore per spiegarlo. Significa ordine e conoscenza connettiva, perché se sono ordinato e metto le informazioni in relazione posso capire e innovare; e posso perfino essere confuso. Ho lavorato con i migliori creativi del mondo e non li ho mai visti disordinati. Anch’io sono sempre stato ordinatissimo nella mia creazione. Per il momento la ricerca si svolge qui, ma non è un luogo definitivo: intendiamo raddoppiare, per avere da una parte il museo biblioteca di elBulli, dall’altra l’innovazione. Lavoreremo perché nel giro di un anno ci sia una prima esposizione, preferibilmente a Barcellona, ma anche altrove: abbiamo bisogno di 4000 metri quadrati. La cucina sarà sempre il nostro linguaggio, ma chiameremo persone di tutte le discipline per lavorare sull’efficienza e l’innovazione.
Sembra una nuova disciplina, una specie di scienza dell’innovazione che fatalmente deve considerare come funziona il cervello.
Certo. Ti faccio un esempio: se ti dico pomodoro, di cosa sto parlando: una pianta? Un frutto? Un vegetale? Solo a quel punto posso creare un pomodoro, un cocktail oppure un marketing attorno al pomodoro. Ma non è ancora finita: resta Cala Montjoi, che al suo quarto progetto architettonico diventerà una postazione work in progress, dove ci sarà un lab con un’équipe creativa sull’innovazione.
La cucina cucinata è il passato?
Personalmente non ho niente a che fare con i locali di mio fratello Albert: ci vado e mangio, se mi chiedono un feed-back glielo do. Ma anche ora stiamo parlando di cucina, anche qui concepisco ricette. Quando torneremo a Cala Montjoi, nel giro di un anno, ricominceremo pure la pratica: sarò il direttore creativo. Abbiamo una fretta relativa, perché sono progetti per le nuove generazioni, dodici mesi non fanno la differenza se la gittata è di 20, 30 o 50 anni. Ma in questo momento la mia sfida non è creare in cucina, quanto capire la creazione e l’innovazione in modo olistico. Voglio condividere con il mondo della gastronomia tutto ciò che faccio: negli ultimi 5 anni abbiamo allestito dieci mostre di elBulli, quando al mondo non ne era mai stata fatta nemmeno una su un singolo ristorante.
Qual è l’eredità più importante di elBulli?
Che tutti i più grandi cuochi del mondo ne sono figli, da Redzepi a Bottura. Come me: siamo tutti fratelli nella maniera di pensare. Significa capire per creare, domandarsi tutto. Chi lo dice? Prima che c’era? Come e cosa è accaduto? Questo è il contributo più importante di elBulli, anche se occorreranno decenni per capirlo, come la cucina, che è stata a lungo misconosciuta. Bob Noto era un profeta nel deserto.
Suona come una rivoluzione culturale.
C’è un ritardo epocale da colmare. Questione di tempo e di denaro, come ho detto, Ma anche di pregiudizi. Si è sempre pensato che i cuochi fossero stupidi e non avessero cultura; che se l’avessero acquisita sarebbe stato un problema. Ci vuole pazienza, bisogna avanzare pian piano perché forse non siamo ancora preparati.