Il turismo può essere davvero un settore strategico per l’economia dell’Italia? Secondo alcuni ricercatori italiani, in particolare Guendalina Anzolin e Simone Gasperin, economisti rispettivamente dell’università di Cambridge e dell’UCL Institute for Innovation and Public Purpose di Londra, entrambi nel Regno Unito, la risposta è ‘no’. Lo argomentano in un capitolo appositamente dedicato della loro ultima pubblicazione, il libro dal titolo ‘30+1 cifre che raccontano l’Italia’, appena uscito per i tipi della Castelvecchi Editore nella collana ‘Cantiere delle idee’.
Il turismo è davvero un pilastro economico?
In un contesto di politica economica nazionale in fase di esecuzione del PNRR che assegna al turismo una dotazione di 6,7 miliardi di euro ‘da investire per la valorizzazione del patrimonio culturale e la digitalizzazione dell’offerta turistica’, i due ricercatori, dati alla mano, mettono i puntini sulle ‘i’ a questa politica, affermando che l’Italia non potrà mai considerare come strategico il settore dell’accoglienza, per lo meno quella massificata.
Tra le motivazioni: rappresenta uno dei settori meno dinamici nelle sue interdipendenze poiché generano poco indotto. In seconda battuta, pur essendo certamente un serbatoio importante di manodopera, non produce ricchezza per gli addetti che sono collocati in quelle categorie di lavori, tra le meno remunerate e sindacalizzate.
Un fatto che non può ignorarsi poiché produce importanti ricadute negative sul territorio sia dal punto di vista sociale che economico.
“La produttività media delle attività turistiche è strutturalmente bassa proprio per questo – spiega a La Madia Travelfood, la ricercatrice Guendalina Anzolin che a Cambridge si è specializzata in politica industriale, cambiamento tecnologico e rapporto tra nuove tecnologie e lavoro, con particolare riferimento alla traiettoria di sviluppo nei Paesi emergenti -. Da economista penso che destinare una fetta maggiore del PIL al turismo, significhi automaticamente che altri settori sono destinati a comprimersi non garantendosi al contempo l’aumento di valore aggiunto in quei territori in cui si sviluppa”.
Secondo i ricercatori, pur essendo un’industria proiettata al rapporto con l’estero, a ben guardare il turismo fornisce un apporto risibile alle esportazioni nazionali nel loro complesso, circa il 7,8% (dato 2019). Peraltro non è un settore che spinge in avanti la ricerca oltre a contribuire all’inquinamento atmosferico per via della logistica dominata dal trasporto, spesso internazionale, via aereo e su gomma.
Non da ultimo, può creare distorsioni nel sistema economico in cui si sviluppa se non viene adeguatamente regolamentato.
“Si pensi alle conseguenze dell’afflusso dei turisti nei grandi centri abitati come Roma, Venezia o Firenze, per esempio. Questa domanda massiva di strutture di accoglienza innesca fenomeni di ‘gentrificazione’ causando l’aumento dei prezzi delle case, provocato dalla trasformazione di appartamenti e palazzi in strutture da collocare sul mercato dell’accoglienza tramite le piattaforme digitali per il soggiorno notturno. Si pensi allo sviluppo smisurato di B&B e Airbnb.
Questo comporta, e lo si sta sperimentando nelle principali città-destinazione, che i prezzi degli affitti per i residenti abbiano raggiunto prezzi alle stelle sicché la popolazione senza abitazioni di proprietà è costretta a ricollocarsi, spostandosi nelle periferie o nei centri urbani minori, svuotando i centri storici i cui immobili, peraltro, diventano oggetto di interesse da parte di acquirenti internazionali.
L’altra alternativa per i residenti nelle città così turisticamente organizzate, è quella di destinare una quota maggiore del proprio reddito a una rendita improduttiva (l’affitto, per l’appunto), sottraendo risorse al consumo diretto di beni o servizi prodotti dall’economia domestica e quindi non spendendo soldi sul territorio”.
“Discutere di turismo in Italia non è semplice – affermano i due ricercatori nel libro -, poiché spesso si è abbagliati dalla bellezza del territorio nazionale e dalla ricchezza del patrimonio culturale e culinario.
Ma i problemi legati alla scelta del turismo come settore strategico sono notevoli. Al tempo stesso, un certo turismo sostenibile, meno concentrato in poche zone costiere o nei grandi centri urbani, può effettivamente portare dei benefici alle aree interne e ai borghi di provincia in crisi economico-demografica e soggetti a fenomeni di spopolamento.
La creazione di un circolo di reddito in una realtà isolata potrebbe innescare altre attività ad esso collegate, come servizi culturali e di alloggio, che valorizzano proprio questi territori e le rispettive abitazioni che più ne necessitano”.
I dati
Il turismo oggi vale 10,6% del prodotto interno lordo italiano (dato 2019). Se si considera che nel 2000 ne rappresentava il 7%, emerge agli occhi la crescita importante che ha registrato.
Non è facile stimare il peso del turismo sul totale dell’attività economica del Paese.
La misura più rigorosa è fornita dall’ISTAT, calcolata utilizzando la metodologia del Conto Satellite del Turismo (CST).
Questo approccio considera con un metodo simile a quello dei ‘compartimenti stagni’ il contributo specifico di attività turistiche in settori come l’alberghiero, i pubblici esercizi, i servizi di trasporto passeggeri, i servizi delle agenzie di viaggio, i servizi ricreativi e culturali il commercio al dettaglio e i servizi abitativi per l’uso delle seconde case di vacanza.
Al tempo stesso, la stima ISTAT misura l’impatto indotto dalla spesa turistica in settori non direttamente legati al turismo. Oggi questo settore è arrivato a rappresentare un valore anche più alto di alcuni settori messi insieme, generalmente considerati pilastri fondanti dell’economia di un Paese, quali quello manifatturiero, quello dei macchinari, degli utensili ecc.
Nel 2019, affermano i ricercatori, il valore aggiunto dell’attività turistica diretta era stimabile sui 71,5 miliardi di euro, quella indotta di 28,4 miliardi (meno del 40% rispetto alla diretta). Il totale di circa 100 miliardi corrispondeva al 6,2% del valore aggiunto nazionale.
Un dato consistente, superiore a quello relativo alla manifattura nazionale di macchine utensili, di mezzi di trasporto e di apparecchiature elettriche sommate assieme. L’occupazione totale nelle industrie turistiche aveva toccato i 4,5 milioni di posizioni lavorative, il 19,2% degli occupati, su un totale di 1,5 milioni di unità commerciali-aziendali.
Emerge subito come la struttura dimensionale media delle industrie turistiche sia schiacciata verso la piccolissima impresa: oltre un milione, l’87,3% del totale, sono unità produttive con meno di quattro addetti, mentre sono solo cinquanta (lo 0,004%) quelle con più di cinquecento addetti.
“Il turismo non è problema di per sé – chiosa Anzolin -, ma lo diventa nel momento in cui lo si considera, in maniera sempre più spinta, uno dei pilastri portanti dell’economia dell’Italia in grado di generare un vantaggio competitivo su altri Paesi.
Così non è. Peraltro le politiche economiche straniere che si sono basate su questo settore considerandolo strategico per l’economia, poche volte hanno funzionato”.
L’impatto sull’economia
“Dal punto di vista storico ed economico, non c’è nessun Paese che abbia puntato sul proprio patrimonio culturale e naturale per ottenere vantaggi competitivi – chiosa Anzolin -. Se l’Italia, in passato, ne ha ottenuto qualcuno, arrivando ad essere tra le prime potenze mondiali, è perché li ha costruiti da zero.
Come è successo prima e dopo la seconda guerra mondiale per il siderurgico, l’automotive e l’industria chimica farmaceutica che oggi, purtroppo, sono tutti in forte declino o passati in mano di multinazionali straniere per la de-industrializzazione spinta che ha caratterizzato il nostro Paese negli ultimi 30-40 anni, indebolendone l’economia nazionale.
Inoltre, l’indotto importante che questi settori sono in grado di generare, non può essere neanche paragonabile a quello derivato dal turismo (meno del 40% del valore totale) senza considerare le ricadute sociali ed economiche poco edificanti.
Si pensi al fatto che quest’industria si avvale di manodopera a basso costo e non sindacalizzata (i bagnini possono arrivare a percepire stipendi da tre euro l’ora) oltre al fatto che la presenza massiva, soprattutto nei siti storici, ha causato negli anni un depauperamento di quelle stesse bellezze sulle quali si è puntato.
Si pensi a Venezia, dove si è da tempo arrivati al punto di rottura, ossia quel momento in cui il turismo smette di essere un vantaggio e diventa un danno per l’economia e per l’ambiente in cui si sviluppa. Quel momento in cui il turismo diventa insostenibile.”
A causa del cosiddetto ‘overtourism’, ossia eccesso di turismo, il comune di Venezia ha introdotto da quest’anno il Venice Pass che prevede un ticket di ingresso nel capoluogo veneto. La prima sperimentazione si è avuta nel periodo del ponte del 25 aprile (giorno di San Marco, patrono di Venezia) e durerà 30 giorni.
Il meccanismo prevede un ticket iniziale di 5 euro nella fase sperimentale (mentre a regime varierà da 3 fino a 10 euro a persona in base ai giorni ) che deve essere corrisposto da ogni persona fisica di età superiore ai 14 anni che accede alla città per una visita giornaliera. In questa fase il contributo non è dovuto dalle 16 alle 8.30 del mattino successivo.
Chi è dispensato dal contributo di ingresso (es. coloro che vi si recano per lavoro o visite mediche) dovranno registrarsi sull’apposito portale denominato ‘Venis’ che registra la loro attività e dal quale è possibile anche acquistare i ticket di ingresso.
Oltre a questo, sono anche previsti dei limiti numerici per i gruppi organizzati (in vigore dal primo giugno) che non potranno essere composti da più di 25 persone.
Alle guide sarà vietato l’uso di microfoni, megafoni e altoparlanti per venire incontro ‘alle esigenze di tutela dei residenti e alla promozione della mobilità pedonale’. Varchi e tornelli, inoltre, serviranno a perimetrare il numero di turisti giornalieri.
Il limite massimo individuato in via teorica, ma non ancora perentorio, è di 40mila nuovi visitatori al giorno.
Il patrimonio italiano
Dal 2021, l’Italia presenta il maggior numero di siti UNESCO al mondo. Si tratta di patrimoni prevalentemente di natura culturale (con l’eccezione delle Isole Eolie, delle Dolomiti, del Monte San Giorgio e dell’Etna) che rendono l’Italia, assieme alle caratteristiche accoglienti del clima e della cucina mediterranei, uno fra i principali Paesi di destinazione del turismo internazionale.
Nel 2019, l’anno precedente al crollo del turismo a causa del Covid, l’ultimo preso in esame dagli studiosi, i turisti internazionali che hanno visitato il nostro Paese sono stati 64,5 milioni.
Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale del turismo (UNWTO), l’Italia era il quinto Paese al mondo per destinazione, il sesto per valore di introiti (49,6 miliardi di dollari). Per contro siamo solo decimi per quanto riguarda le spese per il turismo all’estero (30,3 miliardi di dollari).
Questo ci rende un Paese importatore netto di turismo, un fattore che un tempo avrebbe rappresentato un contributo positivo alla stabilità della bilancia dei pagamenti per l’afflusso di valuta estera importata dai turisti stranieri.
Ma oggi così non è considerati tutti i ‘contro’ che producono effetti economici, asseriti dai due studiosi.
“Se nel 2010 le entrate (ossia i flussi monetari dei turisti stranieri in Italia) rappresentavano l’1,8% del Prodotto Interno Lordo e le uscite (ossia i flussi monetari dei turisti italiani all’estero) l’1,3% – si legge nel libro ‘30+1 cifre che raccontano l’Italia -, nel 2019 le entrate erano aumentate al 2,5% del PIL (il 7,8% dell’export complessivo italiano) e le uscite solo all’1,5%”.
In pratica, nello scorso decennio l’Italia è diventata sempre più terra di turismo internazionale ma anche nostrano perché gli italiani scelgono sempre meno le mete straniere. I consumi turistici italiani, tra spesa degli stranieri, circa 44,3 miliardi di euro, e quella dei turisti italiani, circa 67,3 miliardi di euro, ammontano a complessivi 111,6 miliardi.
Turismo e PIL nel mondo
Secondo le rilevazioni del World Travel & Tourism Council (WTTC), il contributo delle attività ‘turismo e trasporto’ sul PIL nell’anno pre-Covid (2019) era quantificato al 10,6%, superiore a Regno Unito (9,9%), Francia (8,4%) e Germania (9,8%), ma comunque inferiore ad altri Paesi mediterranei come Spagna (14%) che perШ dopo il Covid ha invertito il trend riducendo la quota di PIL derivata generata dal turismo, Portogallo (17,1%) e Grecia (20,7%) che, dal tracollo economico e finanziario, vive in una situazione economica tra le più difficili dell’Unione e che, almeno per il momento, non può puntare su un’economia industriale.
La stima del WTTC relativa al peso del turismo in Italia sul totale dell’economia ha mostrato una tendenza crescente a partire dalla crisi del 2008-2009, il che segnala una graduale riconfigurazione della struttura economica verso questo tipo di attività.
Si sente spesso ripetere che l’economia italiana dovrebbe puntare tutto sul turismo, perché, si dice, ‘è qui che si trova il nostro vantaggio competitivo rispetto ad altri Paesi che invece possono far valere migliori competenze scientifiche, tecnologiche e organizzative nei settori manifatturieri avanzati’.
“Questo ragionamento è tuttavia una trappola logica – spiegano i ricercatori -, peraltro, smentita dall’esperienza storica dello sviluppo economico.
I Paesi a più alto reddito sono quelli che hanno ‘forzato’ i loro vantaggi comparati per inseguire una specializzazione produttiva su settori che presentano livelli più alti di produttività (e di crescita della produttività), come la manifattura di certi prodotti meccanici o elettronici.
Il turismo, al contrario, è fondamentalmente un settore meno dinamico nelle sue interdipendenze, lo si vede da quanto poco attiva, in termini di indotto, l’attività turistica diretta: è un serbatoio di manodopera, sì, ma mediamente a basso costo.
Questo perché la produttività media delle attività turistiche è strutturalmente bassa e perché i lavoratori del settore sono difficilmente sindacalizzabili”.
In conclusione, il turismo non modifica in meglio la struttura economica del Paese, anzi si adegua a quella esistente. Si inserisce più facilmente in un tessuto dotato di infrastrutture e servizi avanzati e tende alla concentrazione in poche aree.
Non è un caso che le regioni con la maggiore densità turistica per abitante e chilometri quadrati siano quelle del Nord (Veneto, Trentino-Alto Adige e Liguria fra tutte). Qui il turismo riesce a produrre maggiore valore aggiunto anche perché convive al meglio con un sistema produttivo mediamente avanzato.
Per contro, le regioni del Sud si collocano nelle ultime posizioni per la produzione di valore aggiunto turistico.
Non può essere quindi considerato un settore che crea un naturale fattore di riequilibrio territoriale.
Il turismo sostenibile
Diverso il discorso per quel tipo di turismo meno concentrato in poche zone costiere o nei grandi centri urbani, che può effettivamente portare dei benefici alle aree interne e ai borghi di provincia in crisi economico-demografica e soggetti a fenomeni di spopolamento.
Si tratta in ogni caso di economie di nicchia e che richiederebbero anche interventi infrastrutturali sui trasporti e sui servizi digitali, oltre a una regolazione più severa delle attività turistiche esistenti, per evitare le già dette distorsioni sul costo e sulla qualità della vita della popolazione residente, come avviene nelle grandi città. “Tuttavia – dice Anzolin -, non ci sono regolamenti che spingono verso questa direzione.
Per avere un turismo sostenibile occorrerebbe inneggiare meno al consumo di cibo o di monumenti e piazze e guardare con attenzione a tipi di vacanza più lenta”
Certamente qualcosa di ben diverso da quello improntata alla logica ‘social’ del mordi, fuggi ma prima scatta e pubblica una foto.
Purtroppo, non esiste una definizione di turismo sostenibile. Sappiamo per esperienza diretta, guardando al caso di Venezia, ad esempio, cosa non sia sostenibile ma non esiste una misura economica per questa definizione.
A Venezia si è ricorso al limite di accessi e alla loro tassazione, tuttavia non esiste un parametro condiviso che misuri la sostenibilità turistica che metta in relazione il numero di visitatori, ad esempio, alla superficie visitata o al numero di residenti esistenti o ancora all’impatto dei visitatori sul patrimonio artistico culturale e architettonico di un dato sito.
“La leva enogastronomica può essere considerata ai fini di un turismo più responsabile – precisa Anzolin – dal momento che spesso parte con l’idea di proporre esperienze più responsabili che spesso sono legate al concetto di turismo sostenibile.
Il turismo italiano andrebbe ripensato non come un settore nel suo complesso, ma come un insieme di sacche di ricchezza che creano valore aggiunto, primo fra tutti, proprio nel settore Enogastronomico”.
[Questo articolo è tratto dal numero di maggio-giugno 2024 de La Madia Travelfood. Puoi acquistare una copia digitale nello sfoglia online oppure sottoscrivere un abbonamento per ricevere ogni due mesi la rivista cartacea]