Di La Madia
Il settore della ristorazione. Senza tutele né “investimenti” politici, continua ad essere una banderuola esposta a tutti i venti.
L’anno non si apre sotto i migliori auspici per il segno zodiacale dei ristoratori.
Secondo il sentire comune, la maggior parte delle famiglie avverte come dimezzato il proprio potere d’acquisto, malgrado le statistiche si ostinino a parlare di aumenti che solo in certi casi avrebbero raggiunto il 20%.
A farne le spese, secondo le previsioni, saranno dunque proprio viaggi e ristoranti, in cima alla lista delle spese voluttuarie da depennare per fronteggiare la crisi economica perdurante.
Niente di nuovo sotto al sole, dunque.
Basta guardare al decennio appena trascorso per vedere come il nostro settore abbia pesantemente risentito di ogni “influenza planetaria negativa”, dalla guerra del Golfo del ’92 a quella nell’Irak del 2003 (passando attraverso crisi politiche, economiche, eurodinamiche).
Ma se praticamente tutti i comparti produttivi dell’economia nazionale possono essere garantiti e sostenuti in caso di crisi, questo non accade nella ristorazione dove, lo ripeto da anni, ogni operatore si barcamena come può e come sa.
Avevo ben sperato quando il nuovo governo, appena insediato, aveva additato a modello il sistema turistico spagnolo. Un sistema vitale che dispone di una vasta gamma di opportunità ristorative, raramente al di sotto di un corretto rapporto servizio offerto/prezzo, dove il pranzare fuori casa è una abitudine consolidata, favorita e incentiva dal governo. Un sistema ben conscio del valore del turismo come traino di una buona parte delle entrate nazionali, che ha impegnato le proprie risorse nella mirabile istituzione dei Paradores (ossia ville e antichi palazzi anche di enorme valore storico, trasformati in hotel di proprietà dello Stato), che offrono una ospitalità qualificata a prezzi veramente accessibili a tutti, imitati, in una sorta di circolo virtuoso, da parecchie catene alberghiere e dai privati.
Da noi, a parte un progetto simile, peraltro mai decollato, della Regione Lazio e tanti esempi di esecrabile abbandono del patrimonio culturale, tutto è affidato non tanto all’encomiabile buona volontà dei privati, quanto piuttosto al loro arbitrio, causa prima dell’attuale esagerazione dei prezzi nell’industria nell’ospitalità.
Nel frattempo assistiamo impotenti al “recupero” maniacale, da parte delle amministrazioni comunali, dei ruderi piú insignificanti negli appetibili centri storici, ormai resi tutti uguali da quell’aria finta e tirata dei lifting improbabili. Investimenti ciechi e a senso unico, perché nelle immediate periferie innumerevoli corti, che rappresentavano interi sistemi produttivi, vanno desolantemente in rovina, probabilmente in favore delle orrende speculazioni edilizie che gravitano attorno ai centri commerciali. Un patrimonio culturale che invece potrebbe essere sicuramente valorizzato, oltretutto con profitto.
Ci si può chiedere cosa impedisca alle nostre istituzioni di prendere la ristorazione sul serio, cogliendo la sua evidente importanza strategica di punto di snodo fra cultura e business, in cui il bel paese sfuma nel sistema Italia: un’opportunità di sviluppo che per una volta può mettere (quasi) tutti d’accordo. Probabilmente però questa negligenza nasconde un certo moralismo nei confronti della gastronomia che, pur essendo un settore trainante della nostra economia, rappresenta da sempre la cenerentola delle arti. Sono forse ancora lontani i tempi in cui si riconoscerà con Artusi che “una discussione sul modo di cucinare l’anguilla vale una dissertazione sul sorriso di Beatrice”, anche in termini di investimenti.