I ristoratori faranno spallucce: un concorrente in più o in meno, ormai, non fa differenza.
Già aggrediti dalla concorrenza “sleale” di agriturismi di facciata, bagni al mare, bar, circoli di partito, da chi mai dovrebbero guardarsi?
A sorpresa, da una categoria che sembrava in via di estinzione: dalle casalinghe di felliniana e artusiana memoria, ormai uniche depositarie – data l’innegabile crisi delle trattorie autentiche – delle rimpiante ricette della nonna e delle ineffabili gioie (o promesse tali) del focolare domestico.
Ancora non è possibile sapere se si tratterà di un fenomeno passeggero o di fisiologica restaurazione di un modello alimentare necessario, se produrrà positive o devianti filiazioni, però la cosa non è da sottovalutare.
L’arzdora infatti si rimette il grembiule, magari sul tajerino di Armani,e fonda una sorta di movimento deciso ad espandersi in tutta Italia, cooptando chiunque abbia le carte in regola per difendere la tradizione e proporla tra le mura domestiche.
Per il momento le fondatrici dell’ home food hanno quasi tutte l’accento emiliano (la loro ideologa è il direttore del dipartimento di sociologia dell’Università di Bologna, Egeria di Nallo) e si autodefiniscono “Cesarine”.
Con la formula dell’ adesione a un club (che evita tanti problemi di carattere burocratico e fiscale), vendono ai soci (e chiunque si può iscrivere) 4 tipi di menù nel salotto buono della propria casa.
Il costo di questo esclusivo servizio parte da 25 euro, ma a 100 si può ottenere un pranzo “principesco”, con musica dal vivo e grandi vini.
E se ora la concorrenza si limita ad un centinaio di neo imprenditrici domestiche, la prospettiva è di incrementarne il numero fino ad almeno 500 entro il 2005.
Che cosa, di questa trovata, dovrebbe far riflettere?Il fatto che in ognuno di noi, malgrado l’ansia di novità, è sempre latente ma vivo il desiderio di mangiare la propria infanzia, di rivivere il sogno e il mito di una tradizione che ci riconcilia con le radici, con il ricordo di quello che si è vissuto o che ci è stato raccontato. Con quanto promettono le Cesarine, insomma.
Perché sennò avrebbero tanto fascino il ciauscolo dei contadini marchigiani di una volta, il pane rustico di Altamura, le ex povere lenticchie di Castelluccio, il formaggio di malga, la lonzetta di fico, la ‘nduja calabrese e tante altre specialità riconducibili alle dispense di una volta?
Non solo perché sono prodotti oggettivamente buoni, ma perché hanno il fascino e la garanzia di una storia non si sa quanto certificabile, ma certo suggestiva.
Se la tavola è una rappresentazione in piena regola di abilità e sensibilità interpretative o creative, quanti sono coloro che, pur apprezzando il teatro d’avanguardia, continuano ad appassionarsi alla messa in scena classicamente perfetta dell’Avaro di Moliere?
L’avanguardia è necessaria, serve a far riflettere, a non adagiarsi nella ripetitività delle formule e delle proposte, a tirare fuori l’estro e, spesso, la stoffa del fuoriclasse, ma la ristorazione italiana vive su un tipo di cucina di stampo tradizionale che solo la grande professionalità rende diversa da quella di casa. La professionalità,dunque.
Ecco dove continuerà a stare la differenza tra la cucina nostalgica della Cesarina, che rivendica patenti di genuità e sincerità, e quella di Pino Cuttaia, di Isa Marzocchi, di Antonio Mellino, di Elide Cerioni, di Marco Bistarelli: nella interpretazione impeccabile dei loro piatti anche più classici.
Certo che se qualcuno ci dice chi fa ancora l’autentico latteruolo sotto la cenere o le lasagne con 11 strati di besciamella e ragù…
Di Elsa Mazzolini