Di La Madia
Rischio di essere capziosa, ma l’empirismo che regola il nostro settore non mi rassicura.
Il mondo dell’enogastronomia è cresciuto culturalmente nell’interesse generale solo da pochi anni. E in poco tempo ha cominciato a raggranellare una serie di concetti, informazioni, regole, leggi e opinabili opinioni che hanno contribuito a scrivere il libro bianco del settore.
In breve, senza lauree ma con quella sorta di preparazione sul campo che una volta era prerogativa dei praticoni, tutti si sono buttati a scrivere e a pontificare su sentori, proprietà organolettiche, caratteri tipici di un prodotto, tradizionalità.
Ma in base a quale preciso sapore, profumo, requisito nutrizionale e biologico un prodotto vanta caratteristiche di tipicità? L’ho già scritto: oggi esiste un tipico mai visto prima. Quale provenienza storica ha?
Recentemente in televisione si è detto che un certo tipo di formaggio era qualitativamente migliore in alpeggio piuttosto che in valle.
“Qualitativamente”, in soldoni, fa la differenza di qualche euro in piú.
Ma quale sapore, profumo o proprietà specifica dà la misura del valore di un prodotto?
Recentemente il nostro collaboratore Donato Creti, aromatiere di professione, ha lavorato sulle foglie di basilico ed ha potuto dimostrare qual è la differenza tra un basilico tipo genovese ed uno tipo napoletano. Oggi gente come lui è in grado, con una semplice analisi, di verificare se nel pesto alla genovese è stato impiegata l’una o l’altra qualità di basilico oppure la miscela dei due. Quale mezzo migliore per salvaguardare i caratteri di tipicità di un alimento che può avere brutte imitazioni in Italia ed in tutto il mondo?Ma prendiamo l’esempio abusato dell’olio extravergine: per definirsi tale deve rispettare determinate costanti chimico fisiche rilevabili con analisi di laboratorio. I suoi caratteri di tipicità vanno invece genericamente definiti come “fruttato” oppure “verde”, oppure “acido”, ma di quale frutta o di quale verde o di quale acido si tratta è il palato del singolo ad appurarlo. Un po’ poco.
Un progetto serio e veramente rispettoso delle nostre tipicità consentirebbe di creare una precisa scheda di identificazione mediante un’analisi olfattometrica che, come un’impronta digitale, riuscirebbe a stabilire se, per esempio, un olio è stato coltivato su una collina piuttosto che su un’altra, raccolto in un determinato momento dell’anno, da quali cultivar ed addirittura se contaminato da foglie d’ulivo che accidentalmente o intenzionalmente hanno preso parte alla molitura, confermando in maniera analitica e piú precisa quanto definito con una comune analisi organolettica. A me non basta che si definisca tipica la lonzetta di fico perché Tizio Lodicoio o Caio Lasalunga hanno detto che quel prodotto ha le caratteristiche tipiche della lonzetta marchigiana o perché il disciplinare di produzione è stato seguito correttamente.
Avrei bisogno casomai di sapere cosa mi posso aspettare all’assaggio…
Mi fido di lodicoio, oppure di quell’impronta digitale scevra di qualsiasi umana debolezza: raffreddore, campanilismo, interesse economico…?