Di
La Madia“Quando ho a che fare con una canzone molto riuscita,non me la sento di cambiarla, con il rischio di farla diventare altro. La magia sta proprio in quella chimica originale” Franco Battiato.
Concerto di Franco Battiato a Cattolica. In menú soprattutto brani molto impegnativi, con poche concessioni ai distillati di musica leggera di grandi Autori, dagli anni ’60 ad oggi. E quindi pochi refrain e cuccurucucú paloma: l’ermeneuta della canzone presenta la parte filosofica di sè e il pubblico lo ascolta con il rispetto dovuto ai maestri.
Però sotto sotto cova la voglia di assaporare i brani gloriosi di sempre e il desiderio di farsi fare dal grande “chef” un paio di cavalli di battaglia da seguire cantando a squarciagola, gustandoli con lui. E infatti la folla esplode appena la “brigata” di quindici elementi accenna le note dell’Era del cinghiale bianco, del Centro di Gravità permanente e di… cuccurucucú paloma.
E’ così, è inutile che ce la raccontiamo. La gente ama di piú ciò che le è familiare. Senza, per questo, chiudersi alle novità.
Sul fronte nostro, questa cucina “esibizionista”, tutta tecnica e scenografia, è di fondamentale importanza per il settore perchè è sintomo di necessaria vitalità, e quindi di progresso.
Ci sembra tuttavia che l’eccessivo camaleontismo dei piatti, il continuo ricorso al melting pot, l’uso esasperato delle contaminazioni, gli esercizi di stile, i virtuosismi sulle note alte possano creare alla lunga un disorientamento e una conseguente disaffezione del pubblico.
La libertà, diceva Gaber (tanto per rimanere nel parallelo con la musica) è partecipazione.
E invece la costrizione a seguire un repertorio che gratifica lo chef prima ancora del cliente, non sempre è partecipazione e condivisione: si rischia di produrre qualcosa di bello ma emotivamente distante dalla gente, senza ancoraggi ai sapori della memoria che alimentano le emozioni di tutti.
Di fatto potrebbe essere controproducente che in un contesto storico nel quale la perdita dei punti di riferimento è all’ordine del giorno, anche la cucina voglia percorrere la strada della perdita delle proprie specifiche identità.
Chiudete gli occhi in certi buoni ristoranti e mangiate: a fatica riuscirete a distinguere con esattezza cosa avete in bocca, e i profumi spesso non vi aiuteranno, addomesticati e rarefatti come sono; ma soprattutto non saprete se siete a Verona o a Palermo, a Bologna o a Firenze, o addirittura a Berlino. Tutto è così fusion, tutto è così multietnico, tutto è così artefatto! L’identità della cucina veneta mortificata sotto le immarcescibili fette del lardo di Colonnata, la tradizione romagnola imbrogliata dietro una grattugiata di bottarga sarda… e così banalizzando. (E d’altronde la stessa cosa succede per i vini).
Intendiamoci, non c’è in noi nessuna ansia di restaurazione, nessun abbandono nostalgico. Crediamo tuttavia che uno chef non si debba sentire tale solo facendo cucina “creativa” e che i critici non dovrebbero esaltare tutte e solo le “lasagnette di biscotto di verza ligure con caponatina rococò, uova di quaglia in camicia piquet, vinaigrette al tartufo di Andria e lischi croccanti marchigiani (24 euro)”, ancorchè ben fatte. Non vorremmo dover rimpiangere davvero “due spaghi” come dio comanda e un cuccurucucú paloma da grande chef.