Di La Madia
L’Italia ha bisogno di un capro espiatorio a cui attribuire le colpe della crisi perdurante che sta stremando il nostro Paese e “Panorama” il 12 maggio glielo sbatte addirittura in copertina.
La faccia del mostro in prima pagina, il bersaglio su cui ci si può divertire a lanciare velenose freccette, è quella di un cuoco della piú unta e abusata iconografia classica: grasso e ridanciano, con il cappello sulle 23, senza la professionale divisa d’ordinanza ma in maniche di camicia e grembiule a quadrettoni e con un bel mazzo di euroni infilati, tramite fotomontaggio, sul cuore. Complimenti.
Dopo aver costruito artatamente il mito di chef mediatici e alimentato il binomio “prezzo alto=alta qualità”, dopo aver incensato vini e cibi soprattutto cari sdoganandone di fatto i costi iperbolici, dopo aver spinto i ristoratori a praticare nei prezzi e nelle formule un tipo di ristorazione ormai anonima per quanto si è omologata sugli standard dettatti dalle guide, il settimanale tuttologo ripercorre il filone del finto scandalo e va a demolire ciò che ha contribuito ad edificare.
E lo fa con un servizio insipiente, banale, confusionario, malscritto e vuoto (lo dico da lettore, ma anche da direttore di giornale) ben lontano, negli scarsi contenuti, dalle promesse strillate in copertina.
Però intanto un po’ di danno è stato fatto e l’immagine fuorviante della cover, unita alle informazioni incasinate e strumentali dei pezzulli pubblicati, favorisce il solito vespaio di chiacchiere superficiali.
La ristorazione vera non è rappresentata e rappresentabile così, o, per contro, dal solito Vissani che, per quanto bravissimo, rappresenta solo se stesso; non è il falso mito del bio su cui marcia chi vuole caricare sul prodotto qualche euro in piú; non è la politica della Dop e dell’Igp funzionali oggi solo agli interessi delle industrie o delle grandi e piccole speculazioni, come si vuol fa credere nel servizio di Panorama.
La ristorazione vera è quella che paga 55 euro un chilo di calamaretti e 10 euro delle normalissime vongole perché i prezzi dei mercati sono “fuori mercato” e fuori di testa; è quella che paga lo scotto di una moneta non regolamentata nel momento della sua introduzione; è quella che paga una politica che finora non ha mai sostenuto il settore, aprofittando della sua mancanza di coesione; è quella che paga un evidente eccesso di offerta, soprattutto non qualificata, rispetto alla domanda attuale; è quella che soffre della mancanza di informazioni corrette ai consumatori; è quella piegata dalla voracità di tasse, gabelle, regole castranti, soprattutto regionali.
E nel contempo è quella dei 100 euro da pagare in un ristorante del nord e dei 50 euro in un analogo ristorante del sud, sintomo drammatico e storicamente devastante di sistemi economici diversi in uno stesso Paese.
Se è vero, come è vero, che un buon piatto di pasta è passato da 12/15mila lire a 12/15 euro, è troppo semplicistico spiegarne le ragioni o trovarne le giustificazioni dando del ladro al ristoratore, anche se in effetti un primo piatto ha un costo di norma piuttosto basso.
Perché se è vero, come è vero, che il ristoratore, lontano dalle furberie, si trova a caricare sui piatti di minor costo le maggiori spese generali – che paradossalmente sono destinate a pesare ancora maggiormente con il logico e fisiologico diminuire della clientela – occorre che la categoria tutta decida di fare sistema, smettendola di subirlo soltanto.
Un partito degli chef, che finalmente si adoperi per aiutare il settore?
Sarebbe ora.