Come nella vita, anche il vino vive di un più che probabile imprinting soggettivo, ma al tempo stesso oggettivo nel contenuto.
Vi sono mestieri che non tutti sono in grado di espletare.
Grandi personaggi dell’economia mondiale, della scienza, della politica e della medicina hanno ottenuto importanti successi grazie alle loro doti, ognuno di loro ovviamente in campi differenti.
Non tutti però avevano lo stesso dono.
L’arte oratoria di Goebbels ad esempio era più unica che rara. Il suo capolavoro può essere considerato il discorso del 18 febbraio 1943 al Palazzo dello sport di Berlino quando riuscì a indirizzare una folla dubbiosa e frastornata dalle prime disfatte delle armate del Reich verso il sostegno più caloroso e pieno al regime; al termine del comizio, quando Goebbels domandò se si volesse la guerra totale, il boato che ne seguì infranse i vetri della struttura.
Gianni Agnelli sosteneva che i patrimoni si ottengono per speculazione, accumulazione e successione.
Lui lo ebbe per successione e di suo ci mise, a detta sua, la responsabilità. Sosteneva di avere una dote, quella di saper individuare le risorse umane, i quadri che avrebbero guidato le sue aziende.
I casi citati hanno qualcosa in comune, ovvero l’istinto: una reazione specifica per tutti gli individui appartenenti alla stessa specie.
L’elemento razionale deve prevalere, ma l’istinto è fondamentale. Dove può effettivamente fare la differenza se ben interpretato? Soprattutto nella scelta dei collaboratori e durante le decisioni importanti.
Gli illuminati possono capire cosa fare attraverso un elemento in più, appunto l’istinto.
Ora, vi chiederete cosa c’entra questa filippica con il mondo del vino; in realtà possiede molti elementi comuni con le storie che abbiamo raccontato.
La prima impressione è sempre quella che conta, soprattutto sul bicchiere.
L’arte della degustazione insegna che attraverso un’esperienza più applicata che concettuale – dove paga più il lavoro di gomito alzato piuttosto che una gobba leopardiana da capo chino sui libri – si ottengono i migliori risultati.
Ovvio che questo non può essere generalizzato a tutti i campi del sapere, ma nel mondo del vino la pratica è più importante della teoria.
La bocca e il naso sono primitivi: un neonato riconosce la madre dall’odore del suo corpo e per sempre sarà così.
Nel vino formarsi inizialmente attraverso un metodo induttivo per poi passare alla fase deduttiva – che per sua natura è astratta – può essere un errore.
Le due strade dovrebbero essere per sintesi parallele.
Ovvio che l’intuizione logica è sempre il risultato di un tirocinio psicofisico prolungato e relativo alla propria attività.
Quindi sovente nel vino la prima impressione è quella giusta, quella corretta.
Se ci pensiamo è come nella vita: anche le persone si annusano come i vini; ci piacciono o non ci piacciono da subito.
Declinato nella grande degustazione, i vini vivono ovviamente di sfumature e sensazioni primarie che colpiscono nell’immediato e forniscono la prima impressione, che solitamente è quella che conta. Quante volte anche ai degustatori più navigati è capitato di centrare un vino subito, al primo approccio olfattivo o degustativo, per poi cambiare idea perché molte sfumature, spesso la maggior parte, fanno parte del copione di tanti altri vini? Credo sia successo tante volte, a me per primo, per questo credo che la soluzione ideologica migliore della sfera vino sia la deduttiva applicata all’istinto feroce, quasi adrenalinico, che scaturisce dallo stupore nell’essere prossimi alla soluzione matematica del bicchiere in degustazione.
Gli occhi brillano quando si può dire: so cos’è!
Un consiglio?
Non tentennate, fidatevi del vostro naso e del vostro palato.