Quando la quantità di farina utilizzata può rivelare i guadagni di una pizzeria
E dopo il “tovagliometro” e il “bottigliometro” arrivò anche il “farinometro”. Il fisco ha affinato negli ultimi anni i metodi di lotta all’evasione fiscale, nel tentativo di ricostruire in modo induttivo i reali redditi prodotti da quegli operatori economici che intendano occultare parte dei propri guadagni. Come da consolidata prassi nel Belpaese, in voga soprattutto in ambito giornalistico, il dizionario della lingua italiana è stato “arricchito” con nuovi termini piuttosto coloriti ma che rendono bene l’idea su come l’amministrazione finanziaria agisca nel solco tracciato dal D.P.R. n. 600 del 1973, ossia la normativa di riferimento per l’accertamento delle imposte sui redditi.
Ultima in ordine temporale, l’ordinanza della Cassazione numero 15580 dello scorso 14 luglio ha statuito che la quantità di materia prima usata dai ristoratori per giungere al prodotto finito può costituire un significativo fattore per avvalorare le risultanze delle verifiche effettuate dal fisco, riconoscendo legittimo, nel caso specifico, l’accertamento induttivo basato sul consumo di farina da parte di un ristorante / pizzeria. Gli ermellini hanno, pertanto, fornito il loro benestare al farinometro.
Il fatto – Ad un gestore di un’attività ristorativa nella regione Lazio, a seguito di verifiche ispettive eseguite dalla Guardia di Finanza, veniva notificato un avviso di accertamento ai fini Irpef, Iva ed Irap fondato su un maggior consumo di farina rispetto al numero di coperti dichiarati. Il giudice di primo grado accoglieva le istanze del contribuente contenute in seno al ricorso proposto avverso l’avviso, mentre la commissione tributaria regionale, esprimendo un diverso orientamento, sposava le tesi dell’appello depositato dall’Agenzia delle Entrate, ritenendo di “ridurre parzialmente il reddito accertato del 30% non disconoscendo un maggior sfrido e un diverso calcolo della farina utilizzata per produrre una pizza”. Della controversia è stata, quindi, investita la Corte di Cassazione, adita dal ristoratore che ha contestato la metodologia analitico – induttiva dell’accertamento, atteso che non sussisterebbero i presupposti per l’applicazione dell’articolo 39, primo comma, lettera d) del D.P.R. 600/1973, ossia “L’esistenza di attività non dichiarate o la inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti”. Il contribuente, inoltre, sottolineava come nella ricostruzione induttiva dei ricavi fosse errato considerare la farina quale ingrediente destinato esclusivamente alla preparazione delle pizze, mentre si sarebbe dovuto tener conto dell’impiego di tale componente anche nella preparazione di altre portate contenute nel menù del ristorante/pizzeria. La Corte di legittimità, non entrando nel merito della vicenda per motivi strettamente processuali, ha dichiarato inammissibile il ricorso del contribuente, limitandosi a condividere, pertanto, le motivazioni del giudice di secondo grado che aveva ritenuto legittimo l’accertamento effettuato, tenuto conto di una percentuale di scarto del prodotto.
I precedenti – Altre pronunce del Supremo Collegio hanno in passato riconosciuto la legittimità di accertamenti induttivi finalizzati a ricostruire i reali redditi d’impresa partendo da indici legati a diverse fasi dell’attività produttiva: in particolare, sull’uso dei tovaglioli di un ristorante portati presso la lavanderia, da cui si ricaverebbero il numero dei coperti serviti ogni anno (sentenze della Cassazione n. 16048/05, 8643/2007, 18475/09, 10584/10) o, ancora, sulla scorta del consumo di acqua minerale, costituendo la stessa un abbinamento fondamentale, anzi indispensabile, con le consumazioni effettuate (sentenza Cassazione n. 17048/2010). Di diverso avviso, invece, si sono rivelati altri arresti giurisprudenziali della Cassazione che non hanno condiviso, con diverse motivazioni, gli esiti di accertamenti eseguiti utilizzando il metodo induttivo. In particolare, tra i più recenti si segnalano l’ordinanza n. 7158/2011 la quale, in tema di numero di caffè venduti, evidenzia che “la motivazione tace sul prezzo medio dei pasti e dall’errore aritmetico ammesso non trae le conseguenze in tema di ricavi, opponendo fatti dei quali non è stato tenuto conto nell’atto di accertamento ai fini del calcolo dei ricavi stessi”, e la sentenza n. 2480/2011 che ha valorizzato il consumo reale di energia elettrica, ricavato dalla lettura del contatore e documentato dal contribuente (nel caso specifico un parrucchiere), in grado di invalidare l’accertamento induttivo basato sulle bollette.