Sostenibilità. Fu durante la prima Conferenza ONU sull’ambiente nel 1992 che si sentì usare questo termine nella sua nuova accezione ecologica, con cui si intendeva la “condizione di un modello di sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”.
Nel tempo la parola sostenibilità si è ampliata nel suo significato a concetti più economici e sociali, ha acquistato un suo status divenendo per alcuni versi quasi tematica di tendenza: parlarne nobilita gli argomenti, li arricchisce positivamente. Tutto oggi tende verso la sostenibilità e la ristorazione non è esente da questa “ricerca”.
Si parla di cucina sostenibile, filiera corta e garantita, di piatti di riciclo e di spreco alimentare: attitudini che potrebbero trasformare il vostro ristorante in un luogo virtuoso ed etico.
Ma cosa significa oggi “essere sostenibili”, al di là di ogni abuso terminologico?
E soprattutto si può e quanto costa essere sostenibili in un settore come la ristorazione?
Uno degli ambiti in cui il concetto di sostenibilità sta richiamando molta attenzione è sicuramente quello alimentare, che comprende modalità di produzione del cibo, trasformazione e consumo. Sotto accusa la produzione di massa con le sue coltivazioni e gli allevamenti intensivi che alimentano da tempo le catene di fast food o le industrie alimentari onnipresenti sugli scaffali dei supermercati.
Lo sviluppo della sostenibilità alimentare si delinea su tre principi fondamentali, correlati tra loro: l’adeguamento della domanda e l’educazione alimentare dei consumatori, che portano all’adeguamento dell’offerta. Tre elementi che possiamo immaginare come tre vettori che innescano un meccanismo circolare a basso impatto ambientale.
Questa la teoria, ma la pratica?
Da un’indagine realizzata proprio in occasione della Giornata Mondiale della Terra (22 aprile) si registra che l’attenzione verso il pianeta inizia dai piccoli gesti quotidiani volti a limitare gli eccessi di cibo, a partire dalla riorganizzazione della spesa per programmare i propri menu settimanali, con il 33% degli italiani che si ripromette di fare scelte di consumo più mirate ed un 47% che cerca di comprare alimenti di provenienza locale, dimostrandosi anche propenso a spendere una somma maggiore per ingredienti a filiera corta (34%) e di stagione (28%) e infine un 52% che ha cambiato il proprio approccio in cucina per ridurre gli avanzi.
Nelle case degli italiani, dunque, le cose sembrano aver preso la strada giusta e la ristorazione invece cosa fa?
Una domanda obbligatoria da rivolgere direttamente agli chef – protagonisti e maggiori “influencer” sul tema – e che ci permette di capire quanto nel concreto si riesca a fare.
Certamente la ristorazione non sta a guardare e già da qualche anno ha adottato una serie di accorgimenti importanti nell’approvvigionamento delle materie prime, nella riduzione della filiera, nella lotta allo spreco alimentare e ad una ricerca di sostenibilità maggiore, soprattutto nel fine dining o in una ristorazione più di nicchia, che sta facendo grandi passi verso un approccio più etico. Cosa invece più difficile da trovare in ristoranti più ad ampio target, dove si necessita anche di un contenimento dei costi anche energetici che oggi non sono sostenibili.
Ma sostenibilità nella ristorazione è da considerarsi anche – come sottolineano tanti della nuova generazione – sostenibilità umana, fatta di lavoro sinergico ed efficiente, basato sul benessere del lavoratore e su una gestione ottimale e proficua del suo tempo. In poche parole per essere sostenibili serve fare delle scelte sostenibili che aiutano a lavorare e produrre meglio e con più benessere, bisogna cercare in tutti quei gesti che devono essere quotidiani e non straordinari e nella consapevolezza che li accompagna.
E per aumentare questa bisogna educare alla sostenibilità. Bisogna, dunque, cambiare il modo di pensare alle cose, cambiare prospettiva se si vuole essere dalla parte giusta.
Tèrra a Copenaghen, l’approccio sostenibile al fine dining
E su questo tema non potevamo non dialogare con Lucia de Luca e Valerio Serino, titolari del ristorante Tèrra a Copenaghen, che da sempre hanno puntato su una cucina anti spreco e su un approccio sostenibile. Un impegno nel tempo sempre crescente che ha permesso loro di avere la Stella Verde Michelin.
“Tèrra è il nostro omaggio al pianeta – racconta Lucia de Luca – Tèrra è una filosofia di vita. È il racconto di ciò che madre natura ci offre, riflessione su un nuovo approccio sostenibile anche nel fine dining. È consapevolezza e salvaguardia per il nostro futuro”.
Avete guadagnato la Stella Verde Michelin e vi definite cucina sostenibile. Cos’è per voi la sostenibilità e si può fare ristorazione sostenibile?
“Sì, nel settembre 2021 abbiamo ricevuto la Stella Verde, un riconoscimento che rappresenta una conferma del lavoro finora fatto.
Un traguardo, ma anche preludio per nuove responsabilità e nuovi obiettivi. Sostenibilità per noi è Rispetto per la natura, per gli ingredienti, per le persone, per il futuro. Sostenibilità è consapevolezza, equilibrio, è passato e futuro insieme”.
Lo chef Valerio Serino ci ricorda infatti, che lui la sostenibilità l’ha appresa dai nonni, per lui è conoscenza, cultura, tradizione che si adegua al moderno, ecco perché nella sua cucina Valerio si focalizza sulla massimizzazione degli ingredienti e sul riutilizzo degli scarti, rendendoli speciali.
Cos’è, dunque, per lo chef Serino uno scarto alimentare e quanta sperimentazione c’è nei suoi piatti?
“Lo scarto alimentare è risorsa. Tutto ciò che viene comunemente scartato diventa stimolo, possibilità. Creatività è la parola trainante. Per noi significa guardare il mondo da un’altra angolazione. Perché buttare le bucce delle patate se sono commestibili? Perché produrre più di quanto possiamo consumare? Perché sprecare risorse? Queste sono alcune delle domande che ci poniamo a Tèrra e il lavoro che facciamo ha l’obiettivo di ispirare gli altri, renderli più consapevoli”.
Essere un ristorante sostenibile cosa comporta nelle scelte e nelle spese aziendali?
“Fare cucina sostenibile per noi vuol dire selezionare prodotti locali e di stagione, provenienti da filosofie naturali, rigenerative o biodinamiche. Prediligendo una dieta come quella mediterranea, con grande apporto di frutta, verdura, cereali e legumi. Per il pesce e la carne applichiamo il concetto “nose to tail” e selezioniamo parti o animali meno pregiati. Tutti gli scarti della produzione vengono trasformati in altro, riutilizzati nello stesso menu o successivamente. Trasformare gli scarti richiede tempo e spazio, ma soprattutto creatività. Al contrario di quanto si possa pensare, un ristorante sostenibile ha dei costi alti per la trasformazione degli scarti, ore e ore di ricerca e di test di fattibilità. Ciò comporta per noi anche l’avere un solo menu degustazione che varia in base alle stagioni e alla reperibilità delle materie prime. Fare questo genere di scelte vuol dire diventare una nicchia e non accontentare tutti”.
Secondo voi i ristoranti come il vostro e gli chef potrebbero “insegnare come essere sostenibili anche a casa?”
“Nei nostri menu degustazione cerchiamo sempre di presentare alcuni piatti o portate dove il concetto del riutilizzo degli scarti possa esser più chiaro possibile, proprio per poter ispirare e stimolare sia i clienti che i nostri colleghi. Più siamo consapevoli, più potremmo agire per migliorare il nostro futuro”.
Eggs a Roma
Tra gli esempi capitolini di ristorazione sostenibile c’è sicuramente Eggs della chef Barbara Agosti. Definito la patria delle uova, un ristorante tematico, che fa delle uova in tutte le forme e specie l’ingrediente principe di ogni ricetta salata o dolce, della tradizione romana e non solo. E il concetto di sostenibilità parte proprio da questo ingrediente prezioso, che sia un uovo di gallina, di quaglia, di anatra, di oca e di pesce come bottarga e caviale: deve essere un alimento assolutamente fresco, garantito, proveniente da filiera trasparente e più corta possibile, e poi rigorosamente biologico e da allevamenti sostenibili. Veri e propri diktat quelli di Barbara Agosti quando parla di approvvigionamento delle materie prime.
Partiamo con la domanda di rito: cosa vuol dire per Barbara Agosti “ristorazione sostenibile” e quanto è fattibile?
“Oggi non si può pensare ad una ristorazione che non sia sostenibile, dove la sostenibilità ha diversi approcci: ambientale, sociale, economica. Come chef e ristoratori abbiamo in mano il potere di acquisto delle materie prime, siamo noi che scegliamo cosa comprare e chi sarà il nostro fornitore con cui instaurare un rapporto di fiducia il più trasparente possibile.
Sapere cosa e da chi comprare diventa in un certo senso una scelta etica, per la salute (nostra e dei nostri commensali) e per l’ambiente. E la scelta di Eggs è stata fin dall’inizio – considerando la tipologia di cucina e di ingredienti – quella di prediligere un’agricoltura e allevamenti bio, sostenibili e non intensivi.
Questo comporta rispettare la stagionalità e le quantità prodotte. L’esempio lampante lo posso fare parlando proprio delle uova. Da Eggs consumiamo tra le 1500 e le 1700 uova a settimana, rigorosamente biologiche, che non possono arrivare da un unico fornitore se lo vogliamo bio, a basso impatto, non intensivo, con galline allevate a terra e libere di razzolare all’aperto (codice “0” sul guscio).
Per forza di cose dobbiamo rivolgerci a più produttori e di questi dobbiamo sempre considerare il numero di capi di animali, che tipologia di allevamento hanno, calcolare eventuali cali fisiologici di produzione, ecc.
Insomma dietro la scelta di un produttore c’è un gran lavoro, faticoso direi, con un grande investimento anche economico, ma che alla fine produce una qualità innegabile percepita e condivisa dallo stesso cliente. Questo tipo di percorso è e deve essere fattibile, ma posso assicurare che esige impegno, costanza nella gestione a lungo termine, passione e soprattutto regole condivise da tutta la brigata”.
Quali sono i criteri di sostenibilità che tracciano il percorso di Eggs?
“Per prima cosa lavoriamo con filiere controllate, piccole e specializzate, anche con sistemi di blockchain e fornitori di fiducia. Il primo grande “sforzo” è quello di cercare i fornitori giusti, più consoni alla qualità che ci siamo imposti, quelli biologici, che producono secondo certi criteri, che ti offrono quel plus in più di altri. Prediligiamo le aziende agricole e gli allevamenti non intensivi e solo bio. Laddove non riusciamo con il singolo fornitore a soddisfare i nostri bisogni ci affidiamo ai consorzi o a distributori che lavorano con aziende selezionate. Per ortaggi, polli e uova, le carni, il latte, cerco solo produttori di zona, ma soprattutto devono essere produttori etici e sostenibili. Solo così possiamo avere un futuro insieme.
L’altro elemento importante è la gestione quasi industriale (sembra un ossimoro, ma non lo è affatto) della cucina e della produzione dei singoli piatti, soprattutto se non vogliamo sprecare nulla.
Da noi si lavora sul peso e sulle monoporzioni standard soprattutto per piatti come le polpette, le lasagne, o ricette che possono prevedere una preparazione a monte (non espressa) per poi essere congelata. In questo modo ho sempre a disposizione tutto e tutto fresco. Evitiamo sempre di conservare a lungo salse, paste o altri prodotti deperibili in frigo, meglio usare l’abbattitore, il sottovuoto, le cotture a basse temperature che garantiscono conservazioni nel tempo più sicure da un punto di vista anche igienico e organolettico. Un’organizzazione precisa e ciclica come questa, diventa sostenibile non solo per evitare lo spreco degli alimenti, ma anche in funzione del tempo, del lavoro delle persone e del mantenimento del food cost invariato. E poi lavoriamo molto sui menu con piatti di riciclo, riutilizzando le rimanenze: dagli scarti degli ortaggi, ai brodi o al pane che non viene consumato per fare le polpette o le panature dei fritti”.
E quindi quanto costa essere sostenibili?
“Come dicevo ha un costo elevato sia dal punto di vista economico, che organizzativo. È un impegno continuo che deve essere portato avanti con obiettivi finali sempre più importanti.
La sostenibilità ha un costo di tempo e di management interno delle cucine: dalla ricerca continua di fornitori, che nel tempo cambiano e si alternano per diversi motivi, alla logistica interna dei nostri magazzini, alle postazioni multiple di differenziata in modo da dare a tutti la possibilità di lavorare bene, all’utilizzo di tecniche di cucina che aiutano a risparmiare energia o conservare meglio e stoccare le materie prime, fino ad arrivare all’ideazione del menù.
In ultimo la voce di spesa economica, tutto questo ha un costo rilevante che si riflette poi sul costo anche che pagheranno i commensali: le nostre uova biologiche hanno un costo medio di 0,70 euro l’uno, usiamo la pasta artigianale del pastificio Mancini con lunga essiccatura, trafila al bronzo e che rispetto ad una pasta più industriale costa il quadruplo, scelte oculate anche sugli oli e le verdure che arrivano tutte da produttori locali con fornitori diversificati in base al prodotto.
E non ultimo il packaging, soprattutto per l’asporto utilizziamo materiale compostabile e in polpa di mais”.
I clienti come percepiscono questa scelta?
“I nostri clienti sia quelli fidelizzati che i “curiosi del format” si aspettano una cucina con materie prime selezionate, a km0, bio e di conseguenza sono consapevoli che la loro richiesta di qualità e di salubrità del piatto si rifletterà anche sul prezzo finale.
Per fortuna lavoriamo e ci confrontiamo quotidianamente con un pubblico consapevole e questo mi rincuora. Spesso sono loro stessi che ci rimproverano o lamentano alcune mancanze come quando c’è chi pensa che il nostro materiale da asporto sia in plastica (invece è in polpa di mais) e più volte, soprattutto durante i periodi di lockdown, abbiamo dovuto spiegare che si trattava di materiali che fanno bene all’ambiente.
Da qui si intuisce che hai un costo anche per “comunicare” che sei sostenibile”.
Secondo te si può essere sostenibili e imparare a sprecare meno cibo anche a casa? I ristoranti come il vostro e gli chef in generale possono dei buoni influencer in questo settore?
“Su alcune cose sicuramente. Come ispirare il cliente attraverso delle ricette di recupero con le rimanenze o dei menu circolari che può replicare a casa, fargli capire che di un prodotto può usare le diverse parti per fare cose differenti, che può congelare o mettere sottovuoto quando sa che non riesce a consumare. Saper conservare gli alimenti nel giusto modo in frigo.
È naturale che non tutto ciò che passa dalla ristorazione è replicabile a casa, specie quando intervengono tecniche e strumenti più professionali.
Quello che deve essere chiaro: come facevano i nostri nonni, per scarse economie e anche per una cultura del non spreco ci sono un’infinità di modi e ricette per dare nuova vita ad un piatto; basta essere attenti, responsabili e avere una buona dose di fantasia”.
[Questo articolo è un estratto del numero di Settembre-Ottobre 2022 de La Madia Travelfood. Leggi gli altri articoli online oppure abbonati alla rivista cartacea!]