Occorre scavallare un paio di dossi verdi, tutti frutteto e boscaglia, dopo aver guadagnato la sponda sinistra del Tanaro, per approdare in frazione Madernassa, e da lì imboccare la salita verso il casolare che prende nome dal toponimo, come le pere, convertito 14 anni fa in ristorante dai patron Fabrizio e Luciana Ventura. Il cielo gastronomico è lo stesso delle Langhe, oggi allo zenit della ristorazione italiana: un mezzogiorno che il corso d’acqua non ha certo arrestato e che trova anzi nel relais uno dei paesaggi più convincenti, a tutto tondo. Nell’aria c’è anche un po’ di Francia: dentro l’edificio geometrico e moderno, fiancheggiato dalla piscina, la cucina a vista incornicia dodici toque in movimento sincronico, animate dalla concitazione nonchalante che regola le grandi maison. E le premure del servizio non sono da meno, per i 40 coperti che col bel tempo si allungano nella terrazza soleggiata. Di fronte c’è Alba, ma potrebbe chiamarsi tranquillamente Laguiole.
“Quando ho visto questo posto, ho subito pensato: è quello giusto”, si incanta Michelangelo Mammoliti, chef trentaduenne che vanta uno dei curriculum più belli d’Italia, non solo fra i ragazzi.
Un curriculum straordinario
Tanto tetragono nella determinazione quanto etereo nelle mani, la cui leggerezza imprime un solco profondo; la erre ancora moscia dopo un decennio oltreconfine, che solleva la voce in una cantilena. “Ma io sono nato a Giaveno, come Baronetto, e sono cresciuto nel ristorante l’Americano di Avigliana, dove mia nonna insegnava la cucina calabrese a una signora del posto, in cambio, le mostrava come fare i tajarin: la prima delle contaminazioni cui ho partecipato.
In quinta elementare avevo già deciso che avrei fatto il cuoco, anche se mia mamma avrebbe preferito studi da geometra. Un anno dopo ho compiuto il mio primo servizio, ma aiutavo anche mio nonno a fare i salami e in casa abbiamo sempre avuto l’orto. È stato quindi naturale frequentare l’alberghiero a Torino e poi girare ristoranti come il Caval’d Brons e il Cambio. A 14 anni mi è capitato per le mani il libro di Michel Bras in francese e ne sono rimato folgorato: fin dall’inizio ho desiderato affermarmi in un ristorante come il suo, immerso nella natura”.
Il percorso per arrivarci tuttavia è stato lungo e tortuoso: prima l’Albereta e il Marchesino con Gualtiero Marchesi, poi Villa Feltrinelli con Stefano Baiocco. “Ma constatavo che gli chef di successo erano tutti passati per la Francia, così gli ho chiesto di intercedere per me e sono finito a Monaco da Alain Ducasse, poi a Saint-Tropez per un’apertura di Gagnaire. In cerca di nuovi stimoli ho ricominciato a inviare curriculum e mi hanno risposto sia Robuchon sia Alléno, che mi ha proposto un inquadramento da sous-chef. E per lui ho lavorato in Svizzera, Libano e per finire al Meurice, due stelle poi premiato con la terza dove mi sono occupato della ricerca, lavorando a crioconcentrazioni ed estrazioni, e sono finalmente diventato chef. Contemporaneamente sognavo qualcosa di più classico, volevo lavorare sulle grosses pièces e l’ho fatto all’Espérance di Marc Meneau. Poi ha prevalso la nostalgia dell’Italia e quando Fabrizio e Luciana, con la mediazione di Damiano Nigro, sono saliti a visitarmi in uno stellato svizzero, ho subito accolto il loro invito alla Madernassa”. Una lucidata alla cucina e il 28 giugno 2015 era già coup de feu.
Il gradus ad parnassum ha decantato tecniche impeccabili e sicurezze proprie di altre maturità. Per quanto Michel Bras sia un riferimento puramente ideale, come nel caso di Andoni Luis Aduriz, il suo magistero è lampante.
L’apoteosi della componente vegetale
Nel protagonismo del vegetale, innanzitutto: sono oltre 120 le erbe aromatiche piantate intorno al ristorante e raggruppate per famiglie (mentolate, piccanti, citriche, amare…), stoccate ogni mattina in frigo dentro contenitori da laboratorio di analisi. Una passione rinfocolata al fianco di Baiocco e coltivata compulsando libri di botanica perlopiù francesi. Ma la Madernassa ha anche un orto completo di serra coltivato dalla brigata di cucina per i vegetali. “Venendo dalla montagna, Bras è stata una rivelazione: ho sentito che il vegetale faceva parte di me. In cucina porta la vita perché cambia continuamente, la mattina per esempio ha più acqua, in mezzo a materie che invece sono morte”. L’utilizzo è originale: sparpagliate a ragion veduta, le erbe vivacizzano il piatto come un perlage di clorofilla e lo ritmano come una punteggiatura. Microscansioni che aiutano a solfeggiare una cucina Champagne.
Ma Bras significa anche giapponismo, non pedissequo ma interiore, e “niac”, agglomerato di movimento, energia, sorprese e piccoli piaceri, così descritto dal grande chef nel suo libro: “A me e Sébastien piace una cucina allegra, la cucina che sorprende e dispensa piaceri. Per questo i nostri piatti sono composti e ornati da una moltitudine di combinazioni che chiamo niac. Strutture di elementi visivi, aromatici, gustativi, consistenze che risvegliano desideri di nuove sensazioni e scoperte. Il niac anima, dinamizza, tonifica e interroga attraverso la provocazione. Questi elementi si situano al margine del nucleo di presentazione del piatto, sono quelli che chiamo tocchi, tratti, linee. Talvolta può trattarsi di emulsioni fluide di acetosa, di peperoncino; talaltra di elaborazioni secche di olive nere, combinazioni di zucchero grezzo di canna e frutta, montaggi di verdure… la gamma si va ampliando di giorno in giorno. Queste strizzatine d’occhio, questi graffi, questi chiaroscuri, armoniosamente combinati con la componente principale della creazione, mi si svelano contemplando il paesaggio, viaggiando”.
La natura e il territorio al centro dell’ispirazione
E proprio così sono composti i piatti di Mammoliti, dove il dettaglio prende il sopravvento anche in fase creativa, se è vero che da un’erba o un condimento parte spesso l’ispirazione, attraverso l’associazione con ingredienti di stagione. Anche qui in chiave esperienziale, di conoscenza del territorio, guadagnata pescando o esplorando, dragaggio nel passato o souvenir di terre lontane, che arricchiscono il bagaglio di tecniche e spezie, dal Giappone alla Thailandia, fino in Maghreb. Lui li chiama “gadget”, per esempio una fragola in conserva che un giorno sferzerà chissà cosa: qui e altrove, adesso e sometimes.
Un “contorno” che serve anche alla personalizzazione del piatto, più o meno dolce, acido o amaro sulla forchetta del gusto soggettivo. Rispetto a Bras, la cucina poggia però su fondamenta più classiche, negli impiattati geometrici come nelle cotture e nelle salse, con fondi che in primavera si alleggeriscono come una stoffa leggera. L’obiettivo natura è raggiunto percorrendo strade opposte alle tratte scandinave, da cui pure arrivano le fermentazioni che corroborano il niac, studiate a Copenhagen.
E sotto la tecnica cova l’inquietudine: i contrasti fra gli elementi, sempre riconoscibili nella loro individualità all’interno di composizioni articolate e complesse, sono in via di esacerbazione con esiti pienamente attuali e talvolta piacevolmente azzardati. Nessun tassello può essere sfilato da equilibri che sublimano una fragilità di cristallo, tutta riflessi e colori cangianti, dove a spiccare è l’acidità, gusto prediletto in ogni sua genealogia, dall’agrume, dall’aceto, da bacilli disparati. Specialmente se volatile mette in circolo profumi, di erbe e fiori, che sono la vera carne del piatto: la bocca è deodorata come non mai in un lavacro da bazar orientale. “Lavoro moltissimo col naso, dalla primavera all’autunno”: un circolo di acidità e profumi in cui si insinua la nota fumé, probabile retaggio delle braci sotto i salami dell’infanzia.
Lo stile in questi due anni si è evoluto non poco, da una partenza classicheggiante al naturalismo georgico, fino agli svolgimenti attuali. Mette al centro il territorio, da cui inizia la giornata di Mammoliti, in strada all’alba per verdure roerine, carni di fassona e trote di Mondovì. Nei ritagli di tempo ci sono da cogliere le botaniche spontanee quali luvertin, aglio orsino, sambuco ed erythronium; oppure da trapiantare i germogli nell’orto. I menu degustazione sono tre: Metamorfosi, composto da 10 corse a 100 euro, 160 con abbinamenti; Emozione, da 8 a 80/120, e Impronta, da 4 a 60/90. I loro piatti sono via via più corposi ma sempre autonomi per articolazione interna (“non mancano l’acido, il croccante, il basico, l’amaro e il salato”) e stilisticamente variati. “Perché, come mi ha insegnato Meneau, ogni piatto deve essere diverso”. La sala è guidata da Pedro Demetrio, sommelier portoghese che amministra una carta da 600 referenze, concentrata su naturali e piemontesi, con qualche innesto iberico.
Nasce dal ricordo di un gusto piemontese (la giardiniera) interpolato con il modello botturiano della salad in bloom il giardino in un morso, cuore di lattuga condito al tavolo con vinaigrette all’ibisco e farcito di sgombro crudo marinato: un circolo di acidità e profumi che stordisce nel consueto solfeggio delle erbe, spesso pungenti per scongiurare qualsiasi accenno di monotonia.
Incanta innanzitutto l’occhio l’omaggio a Kandinskij, con le alici marinate su un intarsio di salse multicolori ai peperoni, bagnetto verde e anchoïade: un caleidoscopio acido/sapido che trova requie nella spuma di lievito madre, elemento di morbidezza per gusto e testura che finisce per evocare un crostino.
Fra i primi risaltano i cubix, ravioli cubici di anguilla allo yakitori con emulsione di rafano per un ricordo di wasabi e barbabietole in estrazione di Parmigiano 48 mesi (foto pag. 62). Oppure, per cambiare repentinamente registro, gli spaghetti cotti in estrazione di prosciutto di Cuneo e al barbecue, conditi con olio di prosciutto di Cuneo e croccante dello stesso: appena due ingredienti e nessuna acidità, come un intermezzo che rovescia il resto del pasto. Ma a diradare nuovi percorsi è anche la cipolla con luvertin, zucchero muscovado, anice stellato e cioccolato puro grattato al tavolo: un ring di gusti primari dove il gong è suonato dal kumquat fermentato alla maniera marocchina, come i limoni confit.
Seguono l’agnello esotico, con la sella al cumino e la spalla sfilacciata nel pane nam, o la trota mi-cuit con emulsione di levistico e gamberi di fiume. In chiusura di nuovo due elementi: yuzu e liquirizia, come nei dolciumi d’infanzia, sotto forma di scacchi di bavarese gelificata, baguette di meringa e gelato, a riprendere il tam tam acido/balsamico del pasto.
Località Lora, 2 – Castelrotto
Guarene (CN)
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