Andare per vino in Turchia – apparente contraddizione se si pensa alle convinzioni religiose della maggioranza della popolazione – è possibile. Di più: è un viaggio a ritroso nel tempo, alla ricerca del momento più vicino a quell’attimo archetipico in cui qualcuno ebbe la geniale intuizione di trasformare il succo d’uva nel divino nettare che tutti conosciamo e apprezziamo. Molte sono le civiltà che si attribuiscono quell’istante di puro genio e folgorazione. Indiani, mesopotamici, egizi. Tuttavia il fatto che Dioniso, il Bacco dei Romani, divinità straniera per eccellenza del panteon greco, lo si voglia originario di queste parti forse sta a significare che la caccia all’euretés, all’inventore della vinificazione, va svolta in Anatolia. Ricercatori statunitensi hanno peraltro scoperto che la trasformazione della vite silvestris in vinifera avvenne a queste latitudini all’incirca settemila anni fa e che da est venne diffusa all’ovest in forme e modalità ovviamente ignote. Inoltre, giusto per cercare conferme plausibili, pare che il Marzemino, nobile vitigno autoctono del Trentino, provenisse dalla città di Merzifon, sulla costa turca del Mar Nero. Così come sembra che l’uva di Troia, con cui in Puglia si producono il Rosso Canosa o il Castel del Monte, abbia indubbi progenitori nei vitigni dei Dardanelli.
Indizi più che sufficienti per partire alla volta della Turchia, dove da qualche anno il settore vitivinicolo sta conoscendo uno sviluppo senza precedenti, pari a quello condiviso con gran parte delle attività produttive e commerciali del Paese. Tanto che nel 2010 i vini turchi si sono aggiudicati la bellezza di 155 medaglie ai concorsi enologici internazionali, segno che, oltre alla quantità, si è voluto dare importanza anche alla qualità. I numeri d’altronde parlano chiaro: la Turchia è il sesto Paese al mondo per produzione di uve, con quasi 4 milioni di tonnellate di grappoli all’anno, per una produzione di vino pari a 75 milioni di litri all’anno, soltanto 3 dei quali destinati all’esportazione. Se è vero che la maggior parte delle uve coltivate sul territorio turco viene ancora oggi destinata alla tavola o all’appassimento per la produzione dell’uva sultanina, altrettanto vero è che nell’ultimo decennio sempre più spazio è stato destinato nei vigneti alle varietà da vinificazione.
In particolar modo in Cappadocia, terra nota per i suoi “camini di fata”, ovvero quei pinnacoli dalle forme improbabili che svettano per chilometri e chilometri in un territorio eroso dai venti e dalle acque. Ai loro piedi si coltivano per lo più viti, che da quelle parti sono tutte a piede franco, visto che per le particolari condizioni climatiche e ambientali lì non si è mai sviluppata la fillossera, l’insetto che nell’Ottocento arrivò quasi a sterminare l’intero patrimonio viticolo europeo prima che si scoprisse l’innesto sul piede americano, inattaccabile dal famelico parassita. Escursione termica e composizione del terreno garantiscono condizioni ideali per uno sviluppo sano delle piante anche senza interventi difensivi. Ovviamente bisogna adottare specifici accorgimenti: il sistema tradizionale ad alberello risulta quello più efficace, a patto però che le piante siano disposte a qualche metro l’una dall’altra, per consentire al suolo di mettere a disposizione la quantità d’acqua adeguata alle necessità nutritive.
Emir bianco e Dimrit rosso sono le varietà più diffuse in quella che può essere considerata l’area vitivinicola più importante e prestigiosa del Paese. L’Emir è il vitigno simbolo della Cappadocia, il più adatto ai suoli vulcanici, dai quali meglio di qualsiasi altro è in grado di strappare aromi e sentori. Vendemmiata a settembre o addirittura a ottobre, è uva di elevata acidità con cui è possibile dare vita a importanti vini secchi.
A garantire la loro sopravvivenza in una società votata all’Islam, e dunque poco incline ad accettare produzioni poco fedeli alla parola sacra, sono state le abitudini di alcuni nuclei familiari che, nonostante i precetti islamici impedissero il consumo di sostanze alcoliche, tuttavia hanno mantenuto inalterate le loro tradizioni.
La tappa fondamentale della rinascita enologica turca va considerata la fondazione, nel 1943, della cantina Turasan, a Ürgüp, nel cuore della Cappadocia. Fu un ex maestro di matematica ad avere l’intuizione: abbandonato l’insegnamento, si dedicò alla coltivazione dei fondi familiari, creando le premesse per lo sviluppo di una delle aziende vinicole più note e produttive della Turchia. Oggi gli ettari coltivati fra Kayseri, considerato il capoluogo amministrativo della regione, e Ürgüp, considerato invece il capoluogo turistico, sono più di 50 e i vini prodotti iniziano a farsi conoscere anche all’estero. La svolta nel 2006, quando venne assunto come direttore tecnico il francese Edouard Guerin: subito intervenne sulle rese, abbassandole drasticamente e puntando alla qualità delle uve, quindi si applicò perché i vitigni internazionali potessero trovare una loro specifica identità a fronte di condizioni pedoclimatiche del tutto particolari come quelle della Cappadocia; al tempo stesso curò e rivalutò alcuni dei più diffusi vitigni autoctoni, giungendo a vini di grande fascino e spessore come il Turasan Emir o il Seneler Chardonnay. Se Turasan è stata l’apripista, a beneficare della sua esperienza sono state subito dopo numerose piccole cantine: anch’esse nate sulla spinta della conservazione delle tradizioni avite, si sono evolute in piccole aziende a conduzione familiare che oggi possono vantare la produzione di vere e proprie perle enologiche. Come la KocabaÄŸ, ad Uchisar: la prima bottiglia sugli scaffali nel 1986 ed oggi sei medaglie d’oro e diciassette d’argento nei concorsi internazionali a certificare i grandi progressi compiuti in un quarto di secolo soltanto. KocabaÄŸ Öküzgözü, KocabaÄŸ Kalecik Karasi, Avanos Red, KocabaÄŸ Emir i vini più apprezzati. O la Taskobirlik, una cooperativa di contadini di NevÅŸheir: Goreme, Belkis, Kalecik Karasi le etichette più note. O ancora la Kavaklıdere, probabilmente la più grande azienda vitivinicola turca, peraltro più concentrata sulle zone marittime che su quelle dell’interno. O infine piccole cantine familiari a MustafapaÅŸa, da scoprire insieme alle eleganti architetture del centro storico, di recente interessato da interventi di ristrutturazione. Insomma, oltre ai camini di fata in Cappadocia c’è di più: e oggi ammirare quei magici pinnacoli degustando un buon bicchiere di vino seduti al tavolo di un locale di quelli giusti non è più sogno ma splendida realtà.