Anche il vino a denominazione di origine controllata finirà in cartone. A sdoganare il bag in box anche per i prodotti di alto livello è stato il ministro delle Politiche Agricole, Luca Zaia, che lo scorso 4 agosto ha firmato un decreto grazie al quale i consorzi che ne faranno richiesta potranno modificare i disciplinari e adattarli alle mutate esigenze di un mercato in continua evoluzione. Naturalmente, come tante volte è accaduto in simili circostanze, si è deciso di legiferare in piene ferie, magari per contenere il clamore delle polemiche e sopire sul nascere qualsiasi tentativo di restaurazione. Già, perché sul bag in box il mondo enologico italiano non ha unità di vedute. Anzi: a giudicare dalle reazioni degli addetti ai lavori, parrebbero più gli scontenti dei soddisfatti. A sconcertare è l’assoluta indifferenza manifestata dal legislatore nei confronti delle possibili, nefaste conseguenze legate all’esportazione di vini doc contenuti in sacchetti di plastica a loro volta confezionati in pratiche scatole di cartone. «Abbiamo preso atto delle richieste del mercato – ha spiegato pochi giorni dopo aver firmato il provvedimento il ministro Zaia – in particolare della domanda dei paesi del nord Europa, dove il bag in box può essere un utile strumento di penetrazione per il vino italiano». D’altronde, come ha ricordato Leonardo Palumbo, presidente di Assoenologi di Puglia, Basilicata e Calabria, «Spagna e Francia lo fanno già da anni: non si capisce dunque perché ci si ribelli alla decisione di lasciare liberi gli interessati di entrare in questo importante segmento di mercato». Il decreto, infatti, non liberalizza tanto per liberalizzare: in realtà acconsente a che i disciplinari di produzione, «limitatamente ai vini a denominazione di origine controllata, con esclusione delle tipologie con l’indicazione della sottozona, della menzione “riserva”, “superiore”, “vigna” e altre menzioni tradizionali» e con esclusione delle Docg, permettano l’uso di contenitori alternativi al vetro, nello specifico i cosiddetti bag in box. Tuttavia, affinché ciò possa accadere, è necessario che i consorzi presentino una certificazione accertante il requisito di rappresentatività o la deliberazione dei soci, il parere favorevole della competente Regione e l’acquisizione del preventivo parere favorevole del Comitato nazionale per la tutela e la valorizzazione delle denominazioni di origine dei vini.
Insomma, si tratta di un procedimento articolato e complesso che alla fin fine deve prevedere un’ampia condivisione di tutti gli attori coinvolti. E che, comunque, rende compatibili alle richieste solo una percentuale minima dei vini presenti in una specifica doc, visto che ormai la stragrande maggioranza di essi reca in etichetta quelle indicazioni che da sole bastano per metterle fuori gioco. È probabilmente per questo che Giancarlo Prevarin, presidente di Assoenologi, non ha contrastato il provvedimento, ma anzi, ha finito per sostenerlo, pur manifestando ufficialmente «la cautela della categoria sulla nuova normativa». In realtà Prevarin riconosce che il progresso non si può fermare, nonostante sia forte il rischio di «perdere quell’equilibrio che l’Italia fino ad oggi ha saputo mantenere armonizzando tradizione e innovazione. Del resto, che cos’è la tradizione se non un’innovazione ben riuscita?». E se a comandare è “sua maestà il consumatore”, non resta che provare ad osare l’inosabile. Incoraggiante anche la reazione di Riccardo Ricci Curbastro, presidente di Federdoc, che ha richiamato i suoi iscritti alla necessità di «prendere atto che il mercato cambia. L’attenzione è d’obbligo, ma senza far tragedie. D’altronde – ha ricordato – quando si abbandonò il fiasco per la bottiglia molti gridarono allo scandalo, eppure non è accaduto nulla». Decisamente soddisfatto, invece, Andrea Sartori, presidente della Confederazione Italiana Vini, secondo il quale «il provvedimento del ministro ha finalmente dotato i disciplinari di strumenti più orientati verso il mercato». Certo, è noto a tutti che nei paesi del nord Europa il vino viene consumato dai più quasi alla medesima stregua di una bibita, senza le ritualità e le cerimonie a cui invece noi siamo abituati. Se lassù non si sente il “bop” del tappo che esce dal collo della bottiglia avvitato al cavaturaccioli nessuno si scandalizza. Si bada piuttosto alla comodità del trasporto o alla facilità di farsi una comoda scorta. Il vantaggio è che ora, come ha paradossalmente riconosciuto lo stesso Federico Castellucci, direttore dell’Organisation Internationale de la Vigne et du Vin, «il consumatore si abituerà a bere italiano, visto che il bag in box è un ottimo strumento di penetrazione nei mercati e nelle abitudini dei clienti nordeuropei». Va peraltro ricordato, tra le altre cose, che il bag in box è un contenitore di grande versatilità, assai più comodo e meno costoso del vetro. Assodato che il contatto della plastica col vino non produce alcuna alterazione dannosa per l’organismo, per lo meno sul breve, non si può ignorare la sua maggiore semplicità di stoccaggio, tale – secondo gli esperti di packaging – da garantire nel trasporto un risparmio di carburante undici volte superiore rispetto alla medesima quantità di vino in bottiglia. Né si può ignorare il fatto che i costi di produzione sono decisamente inferiori, tali dunque da incidere assai positivamente anche sul prezzo al consumatore. Argomenti forti, insomma. Non abbastanza però per chi continua a pensare che il vino non sia un prodotto come gli altri e possegga prerogative e peculiarità che lo rendono diverso anche agli occhi di chi imposta la sua strategia sulle fredde leggi del marketing.
Terenzio Medri, presidente dell’Associazione Italiana Sommeliers, lo ha detto a chiare lettere: «Noi vogliamo tutelare in maniera adeguata il vino di qualità. La decisione del ministro rischia di danneggiare l’intero comparto e l’immagine del vino italiano. Non entriamo poi nel merito della questione dell’invecchiamento: chi può immaginare un vino doc di un’annata particolarmente pregiata conservato in una confezione di plastica e cartone?». Oppure Valentino Valentini, presidente dell’Associazione Nazionale Città del Vino: «Esprimiamo dubbi e perplessità per un provvedimento che rischia di sminuire il valore stesso delle Doc. L’autorizzazione a confezionare vini di qualità in bag in box rischia di produrre un inevitabile declassamento complessivo del sistema delle denominazioni. Per non parlare del disorientamento che può creare per le Dop prossime a venire. Insomma, si tratta di una vera e propria minaccia all’immagine di qualità ed eccellenza del vino italiano nel mondo. Se si è fatto tutto ciò per il mercato, sarebbe stato sufficiente declassare a Igt i vini da impacchettare in bag in box: si sarebbe fatto un favore anche al sistema delle doc, oggi intasato da un numero eccessivo di denominazioni».
Tra favorevoli e contrari nessuno che abbia però colto quella sorta di messaggio subliminale sotteso al provvedimento ministeriale: e cioè che l’apertura al bag in box per i vini Doc non corrisponde per forza di cose ad un declassamento qualitativo dei medesimi. Probabilmente perché un conto è un vino a denominazione di origine controllata e un conto è un vino di qualità superiore. Non sempre le due specificità corrispondono. Né le si trova sempre nella medesima bottiglia. O nel medesimo bag in box. Un’opportunità in più per meditare sui futuri sviluppi del sistema alla luce della necessità, imposta dall’Unione Europea, di calare un velo su Doc e Docg e sostituirle con le nuove dop e igp.
Un cartone per amico?
Per il ministro Zaia è frutto delle richieste del mercato, soprattutto quello estero. L’Assoenologi esprime la cautela della categoria, ma in definitiva lo sostiene. Federdoc richiama i suoi iscritti alla necessità di prendere atto che il mercato cambia e di non farne una tragedia. Nel coro anche la Confederazione Italiana Vini, secondo la quale il provvedimento del ministro ha finalmente dotato i disciplinari di strumenti più orientati verso il mercato. Secondo l’AIS, invece, l’avvento del Bag in Box rischia di danneggiare l’intero comparto e l’immagine del vino italiano. Anche l’Associazione Nazionale delle Città del Vino esprime dubbi e perplessità per un provvedimento che rischia di sminuire il valore stesso delle Doc, di produrre un inevitabile declassamento complessivo del sistema delle denominazioni e generare ulteriore confusione per le Dop prossime a venire. Schieramenti contrapposti tra convenienze di mercato e tradizione d’immagine della qualità? Soltanto quando il Bag in Box diventerà una confezione molto diffusa potremo riconoscere quelli che hanno deciso di avere un cartone per amico.
“La soluzione che dà veramente l’impressione di spillare il vino da una botte!” l’abbiamo trovata in rete nella pagina Quoi de neuf en cave? “Cosa c’è di nuovo in cantina?” a firma di Philippe Margot. Dotato all’interno di uno spazio per alloggiare accumulatori di freddo (?!) che servono a rinfrescare vini bianchi e rosati, questo modello “elegante”, realizzato in legno di quercia, è adatto a contenere confezioni Bag in Box da 3, 5 e 10 litri di cui fa uscire soltanto il rubinetto. In questa versione è provvisto di un vassoio di servizio e proposto per un aperitivo conviviale.