Non sono più i tempi in cui Guy de Maupassant poteva descrivere la Malvasia delle Lipari come “uno sciroppo di zolfo, denso, zuccherato, dorato, il vino del diavolo”. All’epoca – era la seconda metà dell’Ottocento – il poeta francese si era potuto permettere il lusso di assaggiare una delle ultime bottiglie prodotte sulle isole siciliane prima che la fillossera distruggesse i vigneti e condannasse molti degli abitanti, che proprio sulla coltivazione della vite avevano fondato il loro progetto di vita, ad emigrare in cerca di fortuna. E sì che nel corso dei secoli la diffusione della Malvasia sulle isole Eolie era stata tale da consentire ai contadini di produrre fino a 10mila ettolitri all’anno e di poter vivere dei proventi delle vendite del vino, assai apprezzato soprattutto dall’alta nobiltà meridionale per i suoi sapori intensi e inimitabili. Oggi a malapena si raggiungono i mille ettolitri, un risultato comunque ragguardevole dovuto in gran parte alla pertinacia della storica Cantina Sperimentale di Milazzo, i cui lungimiranti direttori, in sintonia con alcuni audaci imprenditori del posto, concretizzarono un ambizioso progetto di reintroduzione della vite: erano gli anni Cinquanta del secolo scorso quando si mise a punto anche la tecnica di produzione, primo passo indispensabile per attribuire ad un vino che aveva saputo affascinare chiunque lo avvicinasse il giusto risalto nel panorama vinicolo nazionale. Nel 1973 il disciplinare vero e proprio, subito dopo il riconoscimento della sospirata Doc. Questa l’architrave su cui una sessantina di eroici produttori ha costruito il successo di uno dei vini più apprezzati da quanti cercano nel bicchiere il calore e la forza esplosiva che solo il sole di Sicilia è in grado di donare.
La Malvasia delle Lipari è un vino dolce e colorato, grazie alla potenza della Malvasia e alla stabilità cromatica del Corinto nero, le due varietà che il disciplinare ammette alla vinificazione. Due vitigni difficili, frutto di un territorio altrettanto difficile: dalle terre vulcaniche nascono piante bisognose di cure continue, dai frutti piccoli e resistenti. Il passito è diventata una scelta pressoché obbligata per esaltare al massimo le peculiarità di quelle uve, capaci di trasformarsi in un nettare topazio e rosa dal singolare profumo di ginestra e albicocca. Nel 1999 il salto di qualità tanto atteso da chi intanto si era speso per sviluppare il progetto elaborato a suo tempo da Paulsen, Nicosia e Barbara, i direttori della Cantina di Milazzo che sulla Malvasia avevano fatto la scommessa più importante della loro vita professionale: la nascita del Consorzio di tutela. Intanto gli ettari vitati erano passati dai 15 degli anni Ottanta ai 45 della fine del secolo: oggi sono già 90, tanto per fotografare con la forza dei numeri l’esuberanza di un fenomeno che la vecchia configurazione burocratica fatica a tenere insieme. Ecco perché qualche settimana fa i produttori che hanno insistito a battere la strada che i loro eroici predecessori avevano aperto tra mille ostacoli si sono riorganizzati in un nuovo Consorzio di tutela, rispondente ai requisiti per il riconoscimento ministeriale, dunque organismo istituzionale a tutti gli effetti in grado di sostenere ulteriormente gli sforzi del pugno di imprenditori che fra Lipari e Salina hanno pervicacemente voluto portare avanti una tradizione secolare. Decisamente ambiziosi i progetti annunciati dal nuovo presidente, Carlo Hauner, primo fra tutti la riformulazione del disciplinare e l’avvio delle pratiche per l’ampliamento della produzione anche alla Malvasia secca: «Negli ultimi anni – ha spiegato Hauner – sono stati fatti alcuni tentativi per verificare come e quanto la Malvasia potesse trasformarsi in un bianco secco, e i risultati sono stati più che incoraggianti». Motivo sufficiente per provare a forzare la tradizione e ad ampliare un’offerta rimasta negli ultimi anni arroccata su quelle 200mila bottiglie di passito che hanno finito per limitare, secondo alcuni dei produttori più avanguardisti, gli sviluppi del settore. L’idea è dunque quella di affiancare alla tradizionale Malvasia un bianco secco da bere a tutto pasto, anch’esso nato dalle medesime uve, entrambi però riconoscibili in un’unica denominazione che dovrebbe prendere il nome di Lipari. Anche perché già da qualche tempo esiste un bianco prodotto sulle isole siciliane e configurato secondo i dettami dell’Igt chiamato Salina. Ma l’opinione comune è che l’inclusione in un unico disciplinare di secco e passito non possa che fare del bene all’intera produzione locale: a tutt’oggi infatti il disciplinare della doc della Malvasia delle Lipari non contempla la possibilità di una vinificazione a secco di uve che invece devono seguire procedimenti che finiscono per escludere quelle opportunità di crescita che il nuovo consorzio vuole invece sperimentare. «I numeri per l’Erga Omnes ci sono – ha aggiunto Hauner – il che può diventare un passo fondamentale per noi produttori e per l’intero sistema eoliano». Non si può nascondere infatti che, a fronte di controlli assai più puntuali e precisi e di procedure burocratiche un po’ più asfissianti, si prospetta la possibilità di avere un prodotto qualitativamente migliore e di godere dell’accesso a fondi riservati. Il che, per vignaioli che lavorano in condizioni decisamente estreme come sono quelle dei terreni vulcanici delle Eolie, può trasformarsi in un buon viatico. Nessuna pretesa di grandi numeri, ovviamente. La nuova doc Lipari, quando troverà la forza anche burocratica per diventare realtà, non potrà che rimanere un prodotto di nicchia. Tuttavia la nuova configurazione potrebbe infondere nuovo coraggio ad operatori che oggi faticano a trovare adeguato riconoscimento al loro duro lavoro. Se anche la nuova doc si limitasse solo a questo, lo sforzo di Hauner e colleghi potrebbe essere ascritto senza dubbio a successo.