Da tempo una delle voci più originali e al tempo stesso pacate della vitivinicoltura italiana, Roberto Felluga – erede della cantina del padre Marco, immersa nei vigneti del Goriziano – non tradisce lo stile che gli è proprio, nemmeno quando, nel bel mezzo di un piacevole conversare di vino e di vini, si toccano argomenti sensibili. Che non sono legati, come consuetudini ormai inveterate potrebbero far intuire a chi non lo conosce davvero, a banali aspetti di marketing o di vendite, quanto piuttosto a questioni che innescano ragionamenti sul chi siamo, dove andiamo, da dove veniamo. Niente voli filosofici o analisi antropologiche conditi da ragionamenti pletorici, però, ma tagli logici e parole semplici. Perché la volontà è quella di volersi far comprendere. E, magari, di comprendere insieme. Idee chiare, dunque, su passato, presente e futuro del vino in Italia, «una nazione – come riconosce Felluga – che in pochi anni è riuscita a raggiungere vette di assoluta eccellenza, nonostante tutto. Ma il bello viene ora: è necessario infatti consolidare quanto fatto fino ad oggi senza dimenticare le nostre straordinarie potenzialità. Dopo la Georgia, curioso ma vero, siamo il Paese al mondo col maggior numero di vitigni autoctoni. È questa la nostra vera ricchezza ed è su questa strada che ritengo sia fondamentale proseguire». Perché senza i fondamenti della tradizione non si va da nessuna parte. «Proprio questo deve diventare sempre più il valore aggiunto della nostra enologia. E invece sono molti quelli che inseguono strade più agevoli o si inventano in ruoli che non sono loro propri». Allora stop con i vitigni internazionali e via libera all’innovazione spinta? «Niente di tutto questo – chiosa Felluga – piuttosto dobbiamo puntare su ciò che abbiamo e su ciò che, con ciò che abbiamo, sappiamo fare, vitigni internazionali compresi. I consumatori si stanno rivelando sempre più preparati ad accogliere le nuove proposte del mercato quando queste rispondono a quelle caratteristiche che un amante del buon vino cerca in una bottiglia. Certo, i numeri sono bassi, poco adatti a quelle politiche commerciali che insistono a privilegiare la quantità sulla qualità. Ma per aziende di media grandezza come la mia (e ce ne sono tantissime nel nostro Paese), gli obiettivi debbono essere altri. Il mercato oggi è in costante movimento e la crisi impone a chi fa il vino di farlo al massimo delle sue possibilità, perché chi spende non vuole buttare i suoi soldi. Puntare sulla qualità e sui valori della tradizione diventa allora fondamentale. Chi è corso dietro le mode del momento, ha finito per pagare o finirà per farlo a breve termine».
IL DRAMMA DELLA BUROCRAZIA E LE SOLUZIONI
Un panorama dunque sostanzialmente positivo, nonostante le difficoltà economiche in cui si dibatte la maggior parte degli imprenditori. «Non mi lamento del mercato italiano – ammette Felluga – anche se le aziende che stanno bene sono quelle che hanno concentrato i loro affari all’estero. E non si tratta di maggiore disponibilità economica dei consumatori, né tanto meno di maggiore competenza enologica. È una più banale questione di regole. Fuori dai nostri confini ce ne sono poche, ben fatte e soprattutto applicate. Noi siamo ancora lontani, la burocrazia, anziché agevolarci, ci strozza, con tutte le conseguenze del caso». La “buronospora”, come è stata a più riprese definita, continua dunque ad impazzare, senza che nessuno, ai piani alti del Ministero, si dia da fare per invertire la tendenza: «Purtroppo l’imprenditore del vino è poco tutelato. Qualsiasi cosa debba fare, è costretto a perdere tempo, correndo spesso dietro a pratiche simili se non doppie. Giusto per fare un esempio banale, ma non certo infrequente: se possiedo un terreno vitato accatastato su due comuni diversi, mi trovo nella paradossale situazione di dover seguire due normative diverse. Da una parte avrò muretti a secco e dall’altra no, di qua la strada asfaltata e di là sterrata, e così via. Per non parlare di quello che accade a livelli più elevati. Per farla breve, oggi il nemico numero uno del vitivinicoltore è la burocrazia. Ma nessuno sembra accorgersene, se non i vitivinicoltori stessi, ovviamente, costretti a maratone amministrative spesso inconcludenti, comunque ridondanti». Forse sarebbe giunta l’ora di assegnare ad un operatore il ruolo di regista delle operazioni, portando al Palazzo dell’Agricoltura uno che sappia davvero di cosa si sta parlando. «Se fossi ministro io? Per prima cosa – celia un po’ Felluga – rifonderei da capo a piedi l’Agea, ovvero l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura che controlla il flusso dei fondi milionari con cui l’Europa sostiene l’agricoltura italiana e che nelle ultime settimane è finita nel mirino della Guardia di Finanza per irregolarità d’uso dei finanziamenti. Nulla a che vedere con le indagini in corso: ciò che mi piacerebbe è che desse risposte rapide al settore, in perenne movimento e impossibilitato a seguire procedure farraginose e inconcludenti. In seconda battuta – continua il brillante vignaiolo friulano – provvederei a creare un organismo unico al quale affidare poche ma fondamentali procedure di controllo affinché i consumatori possano contare su vini di grande qualità e i produttori su norme semplici e veloci da seguire. Infine proverei ad emanare norme di salvaguardia delle varietà autoctone sia nel nome che nella zona di produzione. Perché resto convinto che è quello il settore in cui l’Italia può trovare nuova linfa per il futuro». Ma difficilmente vedremo Felluga sulla poltrona ministeriale. Oggi ha altri progetti. «Non delocalizzerò, come si usa dire oggi. Me l’hanno proposto più volte, ma sarebbe solo business. E a me piace ancora come la prima volta andare nel vigneto, vendemmiare l’uva con le mie mani, fare insomma ciò che mi ha insegnato mio padre. Oppure collaborare con gli istituti di ricerca per contribuire all’innovazione in campo enologico: in questi mesi, per esempio, stiamo lavorando con l’Università di Udine ad un progetto finalizzato all’individuazione di varietà autoctone resistenti alle malattie. Credo che un vignaiolo non debba mai sentirsi arrivato. Ci sono sempre nuovi territori da perlustrare pur senza farsi condizionare dalle mode passeggere». E Felluga, per certi versi, continua a fare l’esploratore, la passione come guida, il cuore come bussola.