Vini bianchi travestiti da rossi: si potrebbe banalizzare così il fenomeno ben più complesso degli Orange Wine, i cosiddetti vini arancioni che in questi ultimi anni si sono imposti all’attenzione di appassionati ed esperti per le loro qualità organolettiche più che, fortunatamente, per quell’indubitabile tendenza modaiola a cui il mondo del vino sta ultimamente indulgendo pur di rinnovare un’immagine che alcuni sentono il bisogno di aggiornare.
Pare si tratti dell’ultima tendenza, ma non è affatto così, anzi: per Orange, giusto per fare un po’ di chiarezza, si intendono comunemente quei vini prodotti da uve bianche attraverso una macerazione prolungata sulle bucce, procedura che alcuni vignaioli hanno recentemente riscoperto, ma che in realtà affonda le sue radici nella notte dei tempi, quando all’epoca degli antichi Romani il vino veniva lasciato maturare nelle anfore di terracotta o quando i contadini, digiuni spesso delle più elementari informazioni enologiche, si arrangiavano come potevano, conferendo un affascinante colore aranciato e profumi rosseggianti a normalissimi bianchi. Oggi che la ricerca ha potuto svelare i segreti di questa antica tecnica; non è blasfemo affermare che le classiche categorie in cui il mondo del vino si è sempre distribuito – bianchi, rossi e rosè – si sono arricchite di una quarta specificità le cui prerogative sono ancora tutte da esplorare, nonostante ci sia chi, come Walter De Battè o Josko Gravner o Stanko Radikon, ai vini Orange ha dedicato un’intera vita. Perché a proposito della loro attività, più che la tecnica, si può scomodare la filosofia: coltivazione delle uve secondo i dettami del biologico più sostenibile, macerazione rispettosa di tempi e tipologie, fermentazione naturale priva di supporti chimici e fisici (ovvero niente lieviti né refrigerazione), imbottigliamento senza filtraggio, conservazione verticale per garantire una chiarifica più che naturale, tutte operazioni legate ad un’etica produttiva che rende questi vini assolutamente particolari, non solo per il loro sapore o i loro spiccati profumi.
Vini di nicchia?
Può darsi, se per nicchia si intende la volontà di perseguire con puntigliosa caparbietà obiettivi che si spingono più in là della standardizzazione produttiva. Tuttavia gli appassionati si stanno accorgendo delle peculiarità di questi prodotti, che devono il loro successo a quei contadini georgiani che, lasciando macerare le uve con le bucce all’interno delle anfore di terracotta, certificarono anni e anni or sono la nascita di un genere oggi replicato con risultati persino più lusinghieri rispetto agli originali in un’area particolarmente ristretta ma, anche per questo, assolutamente caratterizzata, ovvero quella dell’alto Adriatico: Friuli, Slovenia, Croazia, Stiria e Carinzia sono i territori più vocati a questa produzione, ma anche quelli più sensibili all’adozione di quella filosofia produttiva che ha portato gli Orange a superare i ristretti confini delle zone di produzione e a richiamare l’attenzione degli amanti del buon vino. A sentire i produttori del Collio, tuttavia, pare che la primogenitura vada ascritta proprio a loro, interpreti originali della tradizione caucasica: i vini macerati sono stati riscoperti proprio sulle colline e nei vigneti friulani, dove alcuni pionieri si sono votati alla causa fornendo quell’indispensabile know-how che ha consentito al fenomeno di diffondersi nelle immediate vicinanze.
Vini introversi
Ciononostante l’Orange non è un vino facile e può essere apprezzato soprattutto da chi è riuscito a costruirsi un bagaglio esperienziale di significativa efficacia. Alcuni sommelier lo definiscono un vino “introverso”, complicato da abbinare, difficile da gestire in cantina o in frigorifero, ma ricchissimo di suggestioni organolettiche, che vanno tenute a bada con grande professionalità e un pizzico di entusiasmo. «Sono vini difficili se pensiamo di inquadrarli in schemi prefissati – ha però precisato Stanko Radikon, uno dei primi a credere in questo progetto – altrimenti si rivelano esattamente il contrario, purché ci si preoccupi di spiegarne le caratteristiche al consumatore. Difficili lo sono, caso mai, per i produttori: non sono vini da business, tanto per essere chiari, visto che richiedono molto tempo e si caratterizzano per una produzione limitata». Si fanno per passione, insomma, ma sono sempre più numerosi coloro che riescono a percepirlo e a premiare chi profonde risorse ed energie per mantenere viva una tradizione secolare. Anche perché, come sostiene Elena Pantaleoni della cantina piacentina La Stoppa, «lasciare le uve a contatto prolungato con le bucce è un modo altrettanto efficace di esprimere il territorio, visto che le lunghe macerazioni evidenziano i caratteri aromatici più tipici». Difficile, dunque, ma al tempo stesso complesso e, soprattutto, mai banale. Caratteristiche, queste, che se da un lato ostacolano un approccio casuale o distratto, dall’altro invece affascinano quanti sono alla ricerca di nuove, inebrianti suggestioni enoiche. Un ritorno al passato sì, ma al tempo stesso un deciso salto verso il futuro della vinificazione.
Dev’essere per questo allora che il festival mondiale dedicato a questa particolare tipologia enologica, svoltosi alla fine dello scorso anno a Vienna, ha riscontrato un successo ampio e rotondo, anticipato dalla straordinaria affluenza di pubblico registrata a tutte le manifestazioni precedentemente organizzate.
Non c’è nulla da fare, insomma: l’arancione è diventato ufficialmente il quarto colore del vino.